di Anna Lombroso
In primo piano il Battistero degli Ariani a Ravenna e più in là il "muro di Droctulfo" |
perché, grazie ai suoi meriti, egli vive in tutta la città”.
Borges inizia così il suo racconto Storia del guerriero e della prigioniera: “A pagina 278 del libro La Poesia (Bari, 1942), Croce, riassumendo un testo latino dello storico Paolo Diacono, narra la sorte e cita l’epitaffio di Droctulft, il guerriero longobardo che, durante l’assedio di Ravenna, abbandonò i suoi e morì difendendo la città che prima aveva attaccata. “Gli abitanti di Ravenna gli dettero sepoltura in un tempio e composero un epitaffio nel quale espressero la loro gratitudine…”.
Droctulf, che “mentre Faroaldo con frode trattiene ancora Classe, egli prepara le armi e la flotta per liberarla”, secondo Borges non era mai stato illuminato dall’oro dei mosaici e non era mai stato folgorato dalla bellezza, finchè non giunse a Ravenna per metterla a ferro e fuoco. Non conosceva altra architettura che quella si reggeva sui rozzi, tristi e monoliti eretti nelle terre desolate da cui proveniva. Era cresciuto al culto della potenza e della grandezza di Roma, che escludevano magnificenza, eleganza, creatività impiegate al solo scopo di rendere migliori e di far sognare.
Al momento di violare le porte di Ravenna, invece, Droctulft il barbaro viene preso per incanto dalla civiltà, dalla bellezza e si converte ad esse.
La paura dell’invasione e della contaminazione combinata con il dispregio altezzoso verso i barbari è la cifra della cultura occidentale, l’incubo della fine della civiltà travolta dalla rozzezza ferina dell’altro da noi. Oggi grazie a benefici contagi di culture ma anche in virtù di malefiche corruzioni indigene, di aberranti distorsioni endogene dei nostri capisaldi, non possiamo certo dare per scontato che l’invasione venga da fuori.
Drocfult difende Ravenna anche da se stesso, dalla sua indole efferata e dal suo istinto ferino, ammansito dalla bellezza, persuaso della sua inviolabilità, addomesticato dalla sua potenza demiurgica.
Ma le invasioni arrivano da dentro, quella che ormai impropriamente chiamiamo civiltà, in attesa dell’implosione, produce i suoi barbari che si stringono minacciosi, crudeli e analfabeti di pensiero e ragione intorno alla cittadella, interessati solo a sfruttarne le ricchezze e i giacimenti, a rivenderli a altre tribù. Sono gli stessi che oltraggiano e rifiutano chi arriva, gli stessi che danno dell’analfabeta a chi parla altre lingue o comprende nuovi linguaggi che raccontano come potrebbe essere il mondo di domani. Perché la loro disposizione naturale è alla conservazione dei privilegi senza memoria dei diritti, alla gerontocrazia dell’intelletto senza rispetto dell’immaginario libero di altri, alla soddisfazione dei loro bisogni senza comprensione per l’aspettativa di felicità.
Ci vorrebbe Droctulft a difendere Brera dai veri barbari per essere stato irraggiato nelle sue tenebre dalle luci di Mantegna, Raffaello, Bellini, Rubens, Longhi, Fattori, Morandi, Modigliani.
E un primitivo come lui a parlare vecchi e nuovi idiomi, contro il gergo, gli slogan e le litanie della teocrazia del mercato, a recitare i versi della libertà, contro la sopraffazione dei diritti, a fare i gesti del lavoro e le carezze dell’amicizia, contro la rottura dei vincoli di solidarietà.
I barbari sono usciti dal sottosuolo nel quale stavano riparati al caldo per arraffare di più, per accumulare altre ricchezze e privilegi, ma anche per spogliarci di tutto, per renderci corpi nudi, esposti e ricattabili, senza memoria, senza identità di cittadini. Ci tolgono i beni personali e quelli pubblici: case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, ma anche fabbriche teatro di lavoro e conquiste, prati dove abbiamo giocato da bambini, campi dove i vecchi giocavano alle bocce: l’è longa, l’è curta, campi seminati con antichi gesti lenti, per offrirli alla speculazione. Come se fossero vecchi muri, stanze cadenti, posti abbandonati e non la nostra geografia, la bellezza dell’Italia, la sua fisionomia e la sua identità nel mondo, la sua ricchezza inalienabile presente e futura, che nessun miracolo tecnologico può riprodurre, che non può essere minata dalla concorrenza delle manifatture dei nuovi imperi mercantili. E che oggi, paradossalmente, possono essere distrutti dall’interno, dal dispotismo dei neo barbari. Ricchezze condannate a perdere la loro natura e fisionomia di bene comune, di patrimonio collettivo, per essere smembrate e accaparrate da mani privati, quelle di coloro che hanno fatto le loro fortune nelle scorribande piratesche della finanza creativa.
Sono “roba” nostra, questi beni, che nel corso degli anni sono stati tutelati e mantenuti grazie all’intervento pubblico e la fiscalità generale, col concorso materiale di tutti gli italiani, come è giusto sia di un patrimonio che appartiene a tutti noi, non solo come lascito della nostra storia, ma come frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi.
I neo barbari ci impongono di svendere il nostro patrimonio per rimediare a oltre 40 anni di privilegi del ceto politico regionale e nazionale, agli affarismi clientelari dei gruppi di potere, a costose “grandi opere”, alle facilitazioni alle grandi imprese, prima di tutto la Fiat, al lassismo fiscale correo dei vari governi, alle spese di guerra delle “missioni umanitarie” in violazione della nostra Costituzione.
È ora di risvegliare il Droctulft in letargo, è ora di guardare verso i mosaici d’oro come verso il sole carico di rabbia e d’amore e difendere la nostra città, la nostra dignità e la nostra civiltà dagli invasori che vengono da dentro.