di Anna Lombroso
Da tutta la vita lotto, invano temo, contro la faziosità, che considero l’anticamera del pregiudizio irrazionale. L’ho combattuta leggendo scrupolosamente Cèline, Pound, ben prima dell’abuso del suo nome, Schmitt, insomma molti che avevano subito la fascinazione maligna di despoti e tacciati perciò di collaborazionismo ideale e culturale. Non cedetti però alle pressioni del mio professore che voleva darmi una tesi su Heidegger, anche se in quel caso il mio rifiuto era motivato non da un solo pregiudizio: quello scatenato dalle sue mai negate simpatie filonaziste. Ma anche dalla riprovazione per lo stereotipo che impersonava, adultero dichiarato che resta legato alle gonnelle della moglie, che lo cura in casa, lo stira, lo lava, lo cucina e che lo sostiene e promuove socialmente. E che al tempo stesso tiene legata una donna altrimenti libera, bella, stravagante, elegante, che, non casualmente è stata una delle intelligenze più luminose e fertili del Novecento.
I biografi di Hannah Arendt hanno parlato di una ragnatela tessuta dal professore che in quel di Marburgo si era già guadagnato una fama di incantatore luciferino, di pifferaio magico e di agitatore di ingegni a anime, tanto che gli si attribuiva la responsabilità morale e intellettuale del suicidio di una sua studentessa. E tanto che Karl Loewith scrisse che “persone più o meno psicopatiche si sentivano attratte da Heidegger”.
Certamente l’approccio nuovo per non dire “eversivo”, l’attacco al cuore della filosofia accademica regredita a “sapere vuoto”, portati avanti con spericolata sfrontatezza da quella piccola “comunità di lotta” costituita da lui e da Jaspers, la loro reputazione di geniali “ribelli” avevano creato intorno al professore dall’apparenza scialba un’aura romantica e leggendaria. E facciamo che sia a quell’aura che ha ceduto la brillante, vivace, palpitante, coraggiosa e intensa giovane donna, perché a leggere le ampollose, pompose, didascaliche (e pusillanimi ) lettere del loro carteggio, sembra davvero riprovevole l’abbandono, la consegna totale e incondizionata di Hannah a Martin.
Lui le scrive, quando l’affaire aveva già superato la fase “platonica”: “Tutto tra noi deve essere limpido, schietto e puro … il fatto che lei sia una mia allieva e io il suo insegnante è soltanto l’occasione esteriore di ciò che è accaduto … Io non potrò mai averla, ma lei apparterrà d’ora in poi alla mia vita”. Mai sorprendere Napoleone in vestaglia, si scoprono viltà, maschilismo, conformismo, ipocrisia, quelle carceri dell’indipendenza e del libero pensiero che in questo caso probabilmente basterebbero a spiegare anche l’adesione al regime.
E se lui tardivamente le riconosce di aver influenzato la scrittura del suo “Essere e Tempo” – e chissà se è un merito, lei che aveva proclamato di aver sempre saputo “di poter essere veramente solo nell’amore”, riconoscendogli sempre e incondizionatamente un ascendente fondamentale, di aver esercitato su di lei una potenza benefica e suscitatrice di idee e pensiero, mai ubbidisce al ruolo di “altra”, rancorosa per averla condannata a una clandestinità irrispettosa della sua indole, sempre rispettosa e prudente, sempre “amorevole” e indulgente per i vizi privati, come fiera delle pubbliche qualità.
Se ne è parlato molto in questi giorni, per via del film sulla vita di Hannah in visione altrettanto clandestina nelle sale italiane, e in coincidenza con la giornata della memoria. E per quella spregevole inclinazione all’invidia, all’accidiosa demolizione della personalità di grandi intelletti da parte di infinitesimali ragionieristici esegeti, quelli che sostengono la pedofilia di Kafka per via di una gita coi cuginetti, che svelano presunte abitudini sporcaccione di moralisti, poca dimestichezza con il sapone di puristi, qualche imprudente bisbiglio di eroi risorgimentali, è diventato un passatempo molto frequentato interpretare la persistenza dell’affetto acritico di Hannah per Martin alla luce dell’unica cosa letta, la Banalità del male, libro folgorante ma che possiede anche la attraente caratteristica di essere breve e scritto in linguaggio semplice per non dire addirittura pedagogico.
Suggerendo che la banalità degli aguzzini rievochi il sostegno poco ragionato al nazismo di Heidegger e lo “giustifichi” come una debolezza. Lasciando intendere, nel ricordare un ricovero di lui nella clinica di Von Gebsattel, a causa profonda depressione nella quale era caduto dopo essere stato sottoposto a giudizio dopo la fine della guerra, si vorrebbe far pensare che la tolleranza di Hannah per la complicità morale di Heidegger scaturisse proprio dalla coscienza di una debolezza mentale dell’uomo tanto amato. E addirittura supponendo che la comprensione per la “follia” di Heidegger, la coscienza di una vena di pazzia in Eichmann sarebbero dettate dalla consapevolezza che la sua accettazione per la colpa morale e intellettuale dell’amante denuncino un suo “disordine”.
Insomma si chiede qualcuno, banalizzando Eichmann e proteggendo ed esaltando Heidegger, senza coglierne "l'assenza di pensiero", addirittura colpevolizzandosi, la Arendt avrebbe compiuto un esercizio di “occultamento e mistificazione”, una specie di assoluzione, compiuta anche a suo beneficio.
Sono persuasa dei benefici della divulgazione, quanto invece mi preoccupa l’infantilizzazione e la semplicizzazione, va bene anche lo spot del cognac se avvicina a Mozart, mentre sono convinta che Rondò veneziano sparato a tutto volume dagli altoparlanti sui canali, allontani irrimediabilmente da Galuppi, Marcello e Vivaldi, già ridotto a musichetta dell’attesa dei numeri verdi.
La destrutturazione di un pensiero, attribuendogli calcoli così primitivi fa desiderare che prima di esprimersi pubblicamente con tesi così ardite e strumentali, si debba venir sottoposti a un test di idoneità.
Hannah Arendt che nella sua “Vita activa” e altrove riteneva necessario muoversi e agire in uno spazio comune, cercato e trovato solo quando si è imparato che non da soli, ma soltanto con gli altri possiamo scoprire chi siamo e cosa ci lega agli altri, e che senza il quale ogni amore, ogni passione sono “privi di mondo”, riconosceva il suo debito nei confronti del pensiero di Heidegger, ma ne conosceva i limiti di “professionista” della filosofia, quel culto della “solitarietà” come superiorità, tali da considerare una caduta qui modi dell’essere umano che conseguono dalla paritaria socialità, dal dialogare con gli altri, condannato a non essere Dio. Per Hannah quella caduta, la comprensione di non essere un dio solitario, ma piuttosto di vivere da uomo tra gli uomini è invece un dono, una fortuna. Come sa chi non ama l’umanità tutta, ma le persone e non vuole camminare dietro o davanti o sopra, bensì insieme a loro.
E forse negli anni l’amore di Hannah per Martin era stato davvero nutrito da una sorta di pena per quella sua solitudine, probabilmente autistica, inguaribile e ottusa. Una compassione, nel senso di patire insieme, addirittura materna e che piano piano diventa un’amicizia pacata e protettiva nell’autunno della loro vita che si avvicinava all’autunno del secolo breve.
Senza voler scavare troppo vien buona la frase icastica attribuita a Dorothy Parker: e lei si innamorò come si innamorano le donne intelligenti, come una cretina.
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