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sabato 18 febbraio 2012

Entomologia dei professori


di Licia Satirico

I professori vivono in branco secondo una rigida organizzazione gerarchica: ogni gruppo esprime il suo elemento dominante, eliminando progressivamente i soggetti nervosi, aggressivi o troppo indipendenti. I professori sono onnivori e si mimetizzano nell’ambiente: spesso è impossibile distinguerli dagli arredi o dalla boiserie se non quando aprono bocca, specialmente se diventano sottosegretari al welfare o se si trovano in uno studio televisivo. Hanno spiccatissime capacità di emulazione, perché copiare da uno solo è plagio (si dice l’abbia fatto solo Brunetta), mentre copiare da molti è ricerca.

Forse solo così si spiega l’impressionante ricorrenza con cui, interpellati su riforme urgenti vere o presunte, i membri dell’attuale esecutivo utilizzino sempre le medesime espressioni lessicali e gli stessi riferimenti freudiani: messaggi rivolti a un uditorio sempre più addomesticato alla semplificazione dei concetti come strumento di miniaturizzazione delle idee. Nell’arco di poche settimane, Elsa Fornero dice che “non ci sono totem” rispetto all’articolo 18, la cui inspiegabile vocazione sacrificale pare un dato trasversale e indiscusso. Paola Severino ribatte che la modifica della prescrizione “non è un tabù”, salvo poi sorvolare sull’effettiva volontà di rivedere la legge ex-Cirielli o di ampliare nell’immediato i termini di prescrizione per i delitti di corruzione in attesa dell’agognata riforma. Ancora Paola Severino, nell’ambito di un convegno sul codice antimafia, ha affermato stamattina che “non è un tabù” nemmeno l’abolizione della certificazione antimafia, per evitare alle imprese noiose lungaggini burocratiche legate alla prova della loro non mafiosità. Ma persino Silvio Berlusconi, intervistato dall’agenzia di stampa spagnola Efe, ha sostenuto con piglio originale che l’articolo 18 “non può essere un tabù”. A parte l’evidente antipatia per Jung, sembra che le ministre e l’ex premier non abbiano ancora le idee del tutto chiare su cosa conservare e cosa abolire. E che parlino – cosa molto più grave – la stessa lingua.

I professori hanno spiccate capacità di adattamento a ogni ambiente accademico, economico, politico, tecnico e religioso. Con la stessa espressione lignea si adeguano alla Goldman Sachs come alle cerimonie di nomina dei porporati, dove peraltro tendono a perdere in via temporanea le note capacità mimetiche: si consolano con un papa tedesco della diserzione della cancelliera alemanna. Sullo sfondo si delineano problemi di successione: al pontefice, a una Merkel in crescente difficoltà interna ed esterna, a un Monti transizionale schiacciato tra le riforme imposte dall’Europa e quelle “condivise” dalle forze politiche che lo sostengono.

Le femmine dei professori sono particolarmente interessanti: a volte emotive sino alle lacrime, più spesso imperscrutabili, indossano una livrea di collane di perle e giacche in tinta unita per rafforzare un’idea di illuminato rigore. Si indignano per le offese alla dignità femminile ma rifiutano di essere chiamate al femminile. La loro gestualità, contenuta o eloquente, riflette un disagio che si manifesta nelle esternazioni. La corruzione rinviata diventa l’unico pensiero della Severino: formidabile rimorso o Super Io, giusto per chiamare ancora un causa l’abusato Freud?
Corteggiamento e riproduzione dei professori sono infine oggetto di crescente attenzione nel mondo scientifico. La vita sedentaria induce non di rado i docenti ad accoppiarsi con membri della medesima specie. Ciò determina tuttavia nella prole una malattia autoimmune che la porta, il più delle volte, a divenire professore in età adulta: un virus contro il quale non esiste ancora un efficace vaccino.

domenica 5 febbraio 2012

L'incredibile guerra di mummie


di Margherita Nikolaevna

Questa è una storia di morti che sembrano vivi, di vivi che studiano i morti, di beni culturali in degrado e di parenti tardivi, di scienza e di coscienza. Il giudice che dovrebbe dipanarla si chiama profeticamente Matassa. Siamo nelle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, uno dei cimiteri più famosi del mondo: migliaia di cadaveri esposti, vestiti di tutto punto, in piedi, seduti o affacciati ai balconi, divisi per famiglia, per sesso e per categoria sociale (perché anche la morte è classista). La signora con la falce non risparmia nessuno: prelati, frati e monache, borghesi, spose mancate col loro abito bianco, vecchi e giovani. Gli addobbi, i gesti cristallizzati, le pose sono gli stessi dei vivi, angosciosi nella loro atroce normalità.

Una sola mummia sembra però sfuggita quasi per magia alla polverizzazione della carne: è una bimba di due anni, bionda e bellissima, che dorme in una bara di vetro dal 1920. È Rosalia Lombardo: il capolavoro del maestro Alfredo Salafia, che tentò di lenire il dolore dei genitori sottraendo la piccola allo sfregio del nulla. Una “consuetudine gentile” - così amava definirla - dell’imbalsamatore palermitano, noto anche per i suoi interventi sulla salma di Francesco Crispi.

Qualche anno fa un giovane antropologo siciliano, Dario Piombino-Mascali, ha effettuato studi sulla conservazione dei corpi nelle Catacombe dei Cappuccini, concentrandosi su Rosalia Lombardo e scoprendo la formula segreta di Alfredo Salafia. La ricerca ha assunto presto respiro internazionale: l’EURAC di Bolzano ha nominato Piombino-Mascali coordinatore del progetto “Mummie siciliane”, seguito dalla National Geographic Society. Nel 2010 l’antropologo è diventato conservatore scientifico delle Catacombe, dopo studi attenti del corpo della bambina volti a contrastarne i primi segni di degrado. Ora la mummia riposa dentro una teca hi-tech satura di azoto per prevenire ogni accenno di decomposizione.

Ma la mummia è l’unica a riposare. Dopo novant’anni dalla morte, la sorella ottantaseienne di Rosalia Lombardo sporge una complicata denuncia per danneggiamento, diffamazione e truffa, affermando che la spoglia della bambina è stata rovinata dagli interventi di restauro: avrebbe perso la sua aura di vita assomigliando a una morta, il viso scurito e deperito. Seguendo una tendenza nazionale piuttosto diffusa, a raccogliere l’eredità della mummia si presenta anche una sedicente nipote, che si dilegua immediatamente al momento di esibire i documenti. Si rivendicano affiliazioni e parentele postume insieme ai diritti sullo sfruttamento commerciale dell’immagine di Rosalia, intesa un po’ come appendice parentale, un po’ come souvenir.

Gaetano Gullo, soprintendente ai beni culturali del Comune di Palermo, stronca la polemica ribadendo la regolarità e l’assoluta necessità degli interventi conservativi sul corpo della piccola, lanciandosi poi in una reprimenda che sarebbe piaciuta a Sciascia: se il giudice dovesse affermare l’esistenza di diritti familiari sulle spoglie, sarà il Comune a irrogare sanzioni contro l’incuria dei parenti, incapaci di salvaguardare un morto dai morsi del tempo e dalla rapacità dei vivi. Nel frattempo il Gip Lorenzo Matassa sta valutando se accogliere l’opposizione della famiglia Lombardo alla richiesta di archiviazione della vicenda: la guerra della mummia non si estingue.

Palermo è una città in cui la differenza tra vivi e morti resta, per taluni aspetti, trascurabile: fino a pochi mesi fa ben undicimila defunti erano intestatari di pass per auto ed è lecito ritenere che il loro corpo non si fosse conservato bene come le dettagliate autorizzazioni al parcheggio. È una città di morti eccellenti, di morti ingombranti, di morti tenaci, di morti conservati e di morti nascosti, di morti senza giustizia e dimenticati. I morti delle Catacombe, che si disgregano lentamente, non potranno essere conservati a lungo in assenza di nuovi, coraggiosi interventi di restauro come quello praticato su Rosalia. È paradossale ma plausibile pensare che d’ora in poi potranno essere restaurate solo mummie senza parenti viventi.

sabato 4 febbraio 2012

La corruzione dell'inettitudine


di Anna Lombroso

Come quando Venezia affoga nell’acqua alta che i tg cretini definiscono ‘’ suggestivo fenomeno’’, anche a Roma le prime immagini che corrono sono domestiche: incantano i giapponesi nel colosseo imbiancato, i ragazzini che fanno i pupazzi di neve. Ma presto anche Roma affonda nel ridicolo di un sindaco sempre impreparato a prevedere il prevedibile anzi il già annunciato, di una macchina di servizi inadeguata, di cittadini maleducati alle emergenze come ormai sono sprovveduti nella quotidianità.
Vetere venne travolto dalla nevicata dell’’85. È invece probabile che nulla cambi per Alemanno. Pare che siamo ormai così blasè da sopportare malmostosamente ma pigramente qualsiasi cosa ci cada addosso dall’alto, neve, pioggia, soprusi, incompetenza, crimini. E se non è stato investito dagli scandali dell’Atac, delle cattive compagnie tornate dal passato, dalle smanie di fare il tirannello urbano, è probabile si salvi anche stavolta. Anzi è possibile che come ormai è costume nazionale, possa approfittare di crisi incancrenite per collocarsi ben saldo nell’emergenza con procedure d’urgenza, ordinanze speciali, commissariamenti autoritari, provvedimenti liberticidi.

Certo il verminaio della Margherita ha l’effetto collaterale di esimerci dal rimpiangere l’età dell’oro di Rutelli, un moderno Pericle rispetto al camerata Alemanno e che magari, forse, si sarebbe fatto prestare un po’ di spazzaneve e probabilmente avrebbe saputo che il sale non si usa solo in cucina.
Forse, perché lo spettacolo del suo volto terreo e teso, la voce rotta in una discolpa poco credibile, di quelli che fanno pensare se non è correo è idiota lascia pochi dubbi sulla sua competenza di oggi e di ieri, sulla pretesa incapacità di uno che è stato sindaco di leggere un bilancio, per un leader di giudicare e controllare i suoi collaboratori. Né può salvarlo dall’ignominia la difesa schizzinosa preferita nell’era post tangentopoli: il denaro è una cosa sporca che contagia, lo lascio trattare ad altri. Non guardare per lasciar fare è una forma minore ma non meno colpevole di complicità e collusione. E in questo risiede la questione morale, nell’aver subito troppo, più o meno consapevolmente, più o meno entusiasticamente, contribuendo sia pure non direttamente a elevare i limiti di tolleranza della “licenza”, dell’irregolarità fino all’illegalità e alla criminalità.
Si guarda l’iceberg in superficie, i vitalizi, i furti visibili, i costi della politica come se gli sprechi vertessero sul remunerare troppo troppi pessimi rappresentanti. E non sulla dissipazione che deriva dall’incompetenza, dalle scelte inappropriate, dall’inefficienza, che rappresentano l’anomalia italiana anche nel campo della corruzione: mazzette su depuratori mai realizzati, su ospedali vuoti che si sgretolano in mezzo a campagne desolate, su strade che finiscono in un inquietante nulla, su palazzoni pubblici per uso molto personale. Si colloca la corruzione nella “retorica” della crisi morale, come se si trattasse di uno degli effetti dell’eclissi di un’etica pubblica. Mentre è sempre più evidente che è una delle ricadute più patologiche delle insufficienze della democrazie rappresentativa, delle storture di un sistema partitico che come in un circolo vizioso si nutre o è omertosamente complice dell’illecito che a sua volta lo ricatta, nutrendo il circuito dei soprusi, delle “costrizioni” e delle disuguaglianze, inducendo illegalità come fosse una fisiologica “difesa” dei marginali che vi si arrangiano dentro
.
Ma è proprio a questa corruzione, che è corruzione della democrazia, devono attribuirsi molte delle responsabilità della crisi economica e della incapacità di gestirla, perché si tratta di una tremenda e potente componente della disgregazione dello stato sociale e un elemento trascinante della “spesa” pubblica.
Per anni anche i partiti del centro sinistra hanno disinvoltamente e ipocritamente liquidato la questione come se si fosse in frutteria a scegliere tra mele sane e mele marce, mentre è ormai evidente da anni che si tratta di una rete “nazionale” di illecito, di un vero e proprio sistema di arricchimento alimentato e coperto anche da norme specifiche, come quella sulla Protezione Civile. E che il furto delle risorse pubbliche, in una fase di emergenza costituisce una slealtà, un crimine e una formidabile voce di spesa solo apparentemente occulta e esplicitamente tollerata da correi, da favoreggiatori o da aspiranti tali.
E infatti non a caso non esiste una letteratura contabile e statistica che confermi la relazione diretta tra regime democratico e sviluppo economico; quella stabilita dagli studiosi è solo una relazione indiretta. Ma ci sono invece dati certi sulla relazione, diretta e di causa effetto tra corruzione, crescita economica e benessere generale.

Se è provato che indirettamente la democrazia serve a mitigare gli effetti economici negativi della corruzione, è ancora più vero che la triangolazione di questi tre fattori - democrazia, sana politica, sviluppo economico – contesta la tesi che la corruzione rappresenti un incidente se non una aberrazione limitata e episodica a carico di singoli trasgressori. Invece l’impoverimento va insieme alla corruzione se essa è "l´abuso dei pubblici uffici o delle funzioni pubbliche per scopo di arricchimento" di privati o/e di gruppi.
Lo scambio di favori agevola privati che operano nell´impresa, in quella delle costruzioni o industriale, commerciale o dei servizi: come un baro, il corruttore trucca il gioco e si arricchisce con e a spese di tre cose, il denaro dei contribuenti, le leggi e le norme, i potenziali competitori. Prestando attenzione a questa terna (fatale in tutti casi di corruzione) si intuiscono gli effetti devastanti che la corruzione ha sull´economia di un paese. E siccome nel caso della corruzione il danno è sempre fatto a tutte e tre insieme le vittime (le finanze dello stato, le leggi, il mercato) risulta evidente che davvero la corruzione esercita una pressione potentissima sulla società democratica impoverendo l´intero sistema.
Impoverisce per l´ovvia ragione che si alimenta con i soldi che sono di tutti e che violando la trasparenza delle regole (per esempio quelle per l´attribuzione di appalti nelle Grandi opere o nei lavori pubblici ordinari) fa saltare il principio che presiede al contenimento dei costi: competenza su un piede di parità, costituendo un vero e proprio attentato monopolistico all´economica di mercato.

Dovrebbero temere questa aberrazione quelli che magnificano le promesse e le regole del neoliberismo: efficienza, de regolazione, primato del libero mercato. Nel suo clima esasperato, con il primato della flessibilità e della precarietà, con i diritti delle nuove generazioni più incerti e le conquiste del lavoro più labili, il sistema dei rapporti sociali e politici clientelari si sia reinventato con una terribile potenza innalzando i livelli di tolleranza della corruzione e dell’illegalità. La de-moralizzazione del capitalismo ha proprio contribuito a recidere tutti i rapporti tra cultura e politica, fra politica e idee e tra politica e interesse generale. E ha annichilito pensiero, reazione, partecipazione costringendoli nell’angusta aspirazione a piccoli privilegi, all’accumulazione di beni effimeri, in un isolamento dalla partecipazione, perfino dalla rivendicazione, dalla rappresentanza e dalla democrazia.
In questi mesi il gioco preferito dagli italiani è paragonare vecchi e nuovi regimi, consolandosi perchè quello odierno è meno sfacciato, meno volgare, meno pacchiano. A me non basta. Un oligopolio vale un altro e una plutocrazia sobria non fa meno danni di una esuberante.

A ogni scandalo ci si chiede se sia una nuova Tangentopoli: ma la “nuova” disgregazione del sistema presenta un elemento chiave di continuità rispetto a quella “vecchia”, svelata con grande scandalo all’inizio degli anni novanta. E’ ancora una corruzione sistemica. E’ una corruzione nella quale le scelte, le condotte, gli stili, le movenze degli attori sono incardinati entro copioni prefissati, seguono regole codificate, assecondano moduli familiari. E’ una corruzione regolata nella quale appaiono tuttora in vigore – proprio come nelle storie svelate da di mani pulite – norme di comportamento che realizzano alcune funzioni cruciali: facilitano l’identificazione di partners affidabili; differenziano i ruoli nelle aggregazioni di corrotti e corruttori; accrescono i profitti attesi dei processi decisionali, attenuano l’eventuale “disagio psicologico” dell’illegalità; emarginano o castigano onesti e dissenzienti; socializzano i nuovi entrati alla “legge” della corruzione.
Ancora una volta è illusorio pensare che anche questa degenerazione si combatta standoci dentro, agendo nelle sue pieghe e nei suoi interstizi. Bisogna ribaltare l’edificio, scardinarlo a cominciare dalle sue fondamenta che sono quelle del profitto. E di un accidioso piegarsi al potere, sperando di guadagnarci qualcosa, briciole senza diritti.