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lunedì 5 agosto 2013

La democrazia è conflitto: il grande oblio dei partiti

Se davvero si dovesse dire cosa non funziona più nella nostra democrazia e anche in altre, sebbene con sintomi meno evidenti del berlusconismo, è l'abbandono dell'idea conflitto. Conflitto tra idee, classi sociali, prospettive che una volta erano in qualche modo riconosciuto e incanalato dai  partiti mentre adesso giacciono dentro la cantina della storia come una carica di dinamite inumidita, ma pronta ad esplodere. Se domandiamo a 100 persone cosa sia la democrazia probabilmente 80 la ricondurranno solo alla ritualità del voto, che peraltro esiste, sia pure come un'avemmaria dopo un delitto, anche nei migliori regimi autoritari, mentre il restante 20 per cento penserà a un sistema di armonizzazione di interessi.

Il conflitto viene esorcizzato al pari della morte è sembra completamente evaporato dentro un sogno o un incubo, dietro un paravento di apparenze mediatiche e di pensiero unico che vogliono nascondere la realtà: il fatto che gli interessi sono ontologicamente contrastanti fra di loro. Le risorse che vanno al profitto non vanno al lavoro e viceversa, quelle che vanno alla finanza non vanno al welfare e così via per tutti i possibili sentieri percorribili alla luce di questi due esempi: qualcuno ci perde sempre, qualcuno ottiene un plus valore o subisce un minus valore. Non c'è nessun modo di evitarlo, di evadere a questa specie di termodinamica sociale anche se siamo esposti a pseudo verità truffaldine che ci suggeriscono di essere sulla stessa barca: la stessa barca è solo un'invenzione di chi non sta ai remi.
La democrazia nel suo senso vero è regolazione del conflitto, un sistema di governo che aggiorna continuamente i suoi instabili equilibri, li attualizza e li sottrae alla sclerosi della rendita di potere e di pensiero, che insomma rende possibile il passaggio da un punto all'altro sulla scala degli stati di equilibrio di una società.

Questo significa anche che la democrazia reale deve necessariamente essere aperta alla consapevolezza che non esiste un' unica realtà possibile e/o un solo assetto possibile da gestire in nome di una "verità indiscussa" dentro la quale il consenso, ormai facilmente ottenibile grazie a un illusionismo mediatico di massa, viene speso solo per rafforzare e introiettare il pensiero unico. Il metodo democratico è necessario, ma tutt'altro che sufficiente alla democrazia e purtroppo dall'inizio degli anni '80 abbiamo assistito a un drammatico svuotamento di sostanza, man mano che tutto si riduceva, talvolta in maniera ossessiva, come dimostra il politicamente corretto, a forma volta e a una astuta amministrazione del capitalismo. La caduta del muro e il disfacimento dell'Unione sovietica ha reso poi ufficiale l'esistenza di una sola forma di "verità" sociale. Ovvio che dentro questo schema l'idea del conflitto fosse da combattere, esorcizzare e ridurre a imposizione, magari vellutata e consensuale di una realtà indiscutibile, chiamando le vittime a credere senza tentennamenti al boia che annoda il cappio.
Ed è così che i partiti, abbandonata alle ortiche l'idea della conflittualità espressa dalle classi o ceti sociali che la incarnavano, si sono man mano trasformati solo in centri di potere e di pressione, rinunciando completamente ad essere motori di idee, collettori di rappresentanza concreta di istanze e prospettive. Sono diventate collage di figurine sociali da collezionare. Il processo è stato per così dire mondiale, anche se in Italia ha finito per assumere toni farseschi e per dare espressione solo agli istinti di doppia morale e menefreghismo etico, tipico di una cultura ampiamente arretrata rispetto alle sue stesse conquiste. Producendo dunque corruzione, illegalità e arroganza o interessata complicità nel tollerare tutto questo.

La cosa un po' buffa, quella che ci riguarda da vicino, che ci tocca nella vita e nel futuro è che l'idea della democrazia come conflitto e come sistema di governo "in progress" era nato con quello che viene chiamato "compromesso keynesiano" : la presenza di una rivoluzione comunista attiva e di enormi surplus produttivi dopo il disastro finanziario di Wall Street, aveva costretto il capitalismo e la stessa scienza economica a partire non più dall'offerta, ossia dalle esigenze della produzione, ma dalla domanda come fattore centrale di sviluppo. Domanda aggregata significa salari, diritti, welfare, significa attenzione sociale, tutte cose che paradossalmente stiamo eliminando proprio quando, dopo l'orgia liberista, il pensiero di Keynes viene rivalutato e si vede con una certa chiarezza, nonostante i molti tentativi di nascondimento e i molti tonfi "scientifici", per così dire, che senza domanda aggregata l'economia non funziona. Dunque anche senza senza i correlati sociali, l'apertura di idee, il senso del conflitto che vi si accompagna.  Però non abbiamo più nemmeno gli strumenti attraverso cui tutto questo veniva filato, ossia i partiti che regolavano lo scontro e si facevano portatori di prospettive che immettevano nuove idee di equilibrio nel tessuto sociale. Ci sono ancora come nome, ma sono solo collettori di un consenso allo stato brado, rozzo e confinante con la clientela o con la credulità mediatica. E del resto è questo il destino e l'esito di contenitori anodini che vogliono rappresentare tutto e tutti e finiscono per rappresentare solo se stessi.

Per questo siamo davvero nudi di fronte a una crisi di un capitalismo senza più meccanismi regolatori. E ammutoliamo invece di gridare di fronte all'indecenza di un potere che ormai rappresenta solo se stesso.