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martedì 29 novembre 2011

Evasione fiscale: fare di necessità vizio


di Anna Lombroso

Pare che il nuovo stile piuttosto spregiudicato dei governi europei moderni sia quello di fare di necessità, vizio. Mentre non sarebbe difficile fare virtù senza troppi stravolgimenti costituzionali e senza troppa carneficina di diritti e equità. Certo mi si dirà che i burocrati europei ci mettono fretta, che per certi provvedimenti l’iter parlamentare è troppo impervio, che per qualche misura invece è proprio necessario, che in qualche caso è un optional. E che i gesti simbolici sono inutili e che poi invece bisogna dare un segno e che certi interventi portano benefici trascurabili e che certe azioni non hanno grandi effetti ma sono persuasivi. Insomma molto o poco e il loro contrario.

Sono sospettosa e ho l’impressione che sarà questa la pratica imperante nell’impero degli implacabili contabili, anche per quel che riguarda la lotta all’evasione. Oddio meglio poco e subito del molto impraticabile vagheggiato dai vari altoparlanti tremontiana , compreso un sodalizio con la Svizzera per accedere ai conti dei grandi evasori.
Però per rendere loro la vita un po’ meno dorata ci vorrà qualcosa di più del controllo sulle transazioni di denaro liquido. È abbastanza risaputo che non girano con bauli di talleri d’oro preferendo una catena di riciclaggi a mezzo bonifici o depositi nei paradisi fiscali; oppure il ricorso a pensionati e nullatenenti nostrani. Il 53 per cento dei contratti di locazione, spesso non registrati, delle ville di Porto Cervo, Forte dei Marmi, Porto Rotondo, Rapallo, Capri, Sabaudia, Panarea, Portofino, Taormina e Amalfi sono intestati a pensionati con la social card, prestanome di ignoti non-contribuenti.

L’evasione fiscale italiana è una delle più pingui del mondo. Secondo le più recenti stime dell´Istat  l´economia sommersa in Italia ha raggiunto nel 2008 circa 275 miliardi di euro pari al 17,5 per cento del Pil. Di questi si stima che 230 miliardi siano propriamente evasione fiscale, con un mancato gettito di 120 miliardi: più del doppio di una manovra emergenziale.
L´Agenzia delle Entrate ha stimato che l´evasione riguarda in particolar modo il terziario e il settore delle costruzioni, dove arriva al 60 per cento del reddito.
È più elevata al Sud, dove raggiunge il 50%, il doppio del Nord in termini relativi, mentre quest´ultimo prevale ovviamente in termini assoluti.
In Europa l´evasione fiscale italiana è preceduta soltanto di pochissimo dalla Grecia con il 20 per cento; è poco più di quella inglese mentre nei riguardi degli altri paesi registra un differenziale che è in media di 10 punti: 11 per cento in Germania, 7 per cento in Francia, 4 per cento in Danimarca, 4 per cento in Spagna e Portogallo (!), 3 per cento in Svezia.

Il differenziale italiano con gli altri paesi è rimasto stabile negli ultimi venti anni, mentre si sono rinnovate con puntuale insistenza le promesse di decine di governi di combattere l´evasione fiscale. Quanto all´Iva, un recente studio promosso dalla Commissione di Bruxelles stima un´evasione di imponibile italiano del 22 per cento contro il 9 per cento in Germania e il 7 in Francia (30 per cento in Grecia).
Per combattere l’attività più fiorente e redditizia di un ridotto segmento di popolazione, a meno che non si voglia limitarsi all’idraulico che ha cambiato la guarnizione, opera peraltro meritoria, come si diceva un tempo occorre la volontà politica. Se c’è quella pochi ostacoli sono davvero insormontabili. Soprattutto se un quadro di riferimento normativo e amministrativo c’è già.
E nel caso dell’evasione saremmo in qualche modo attrezzati malgrado i tentativi del precedente governo di annichilire definitivamente la lotta all’evasione anche grazia al prezioso contributo del ministro Brunetta, oggi sostituito da un suo valido collaboratore.
La conversione del dl 138 ad esempio non prevede più l’obbligo, previsto dal maxiemendamento governativo, di indicare in sede di dichiarazione dei redditi e Iva i soggetti con cui si intrattengono rapporti finanziari.

Ciononostante la possibilità di acquisire una massa critica di dati per costruire “liste” per controlli selettivi, basate sull’incoerenza fra reddito dichiarato e patrimonio mobiliare, ad esempio, sarebbe in larga parte perseguibile utilizzando informazioni e strumenti già a disposizione dell’amministrazione finanziaria, attraverso l’Anagrafe dei conti.
La conoscenza congiunta di reddito e patrimonio complessivo in capo ai singoli contribuenti potrebbe costituire infatti un giacimento nevralgico per l’amministrazione finanziaria. E sarebbe possibile che il funzionamento dell’Isee, l’indicatore che, fin dal 1998, è deputato a misurare la condizione economica di coloro che richiedono l’accesso agevolato alle prestazioni del welfare (asili nido, mense scolastiche, esenzione ticket sanitari, diritto allo studio universitario, edilizia pubblica, assistenza agli anziani, ecc.), tenendo conto non solo dei redditi dichiarati al fisco ma anche del patrimonio mobiliare e immobiliare del nucleo familiare di appartenenza, non avesse una aberrante funzione punitiva ma andasse davvero a stanare le incongruenze.
Riferisce il Cer, Centro Europa Ricerche, che a dieci anni dalla sua introduzione l’Isee ha raggiunto una diffusione molto ampia, arrivando a coinvolgere nel 2009 circa 5,8 milioni di famiglie per un complesso di 17,3 milioni di individui, il 28,8% della popolazione italiana (una percentuale che sale al 49% nel mezzogiorno). Ma purtroppo, il versante dei controlli è il punto più debole dell’intera architettura dell’istituto condizionando la capacità selettiva dello strumento nei confronti del fenomeno dell’evasione.

Se i risultati sono insoddisfacenti, le informazioni e gli strumenti offerti dall’Isee, secondo il Cer, sono una realtà e potrebbero essere utilizzati per dare impulso alla più generale lotta all’evasione fiscale.
Ma come si diceva ci vuole volontà politica e a seconda di chi tiene in mano il coltello c’è il rischio invece di colpire i falsi poveri, di dare addosso ai poveri veri quelli che non possono evadere nemmeno dalla galera dell’indigenza.

lunedì 21 novembre 2011

I Monti di pietà


di Anna Lombroso


Mi secca,mi urta, mi irrita. Ma soffro la stessa malattia del capitalismo, siamo demoralizzati.
Per quanto mi riguarda, demoralizzazione, come sul vocabolario, vuol dire perdita di fiducia in se stessi e negli altri, abbattimento, frustrazione. Per il capitalismo come da tradizione potente e prepotente, arrogante e autoreferenziale, vuol dire perdita della morale, dismissione di ogni regola di condotta, anche di quelle funzionali all’economia.
E sono preoccupata, perché se per quanto mi riguarda può significare, disillusione, diffidenza, paura e disincanto, per quanto riguarda il capitalismo significa rinuncia a ogni standard di onestà, di autocontrollo, di rispetto dei limiti, a costo di un vortice sempre più profondo e buio di rapacità e iniquità.

C’è poco da stare allegri, anche per via di un infecondo quanto giocondo abbandonarsi al cinismo come moderna declinazione del realismo, se l’illuminato Scalfari scrive che l’equità sarà il “lubrificante” del rigore e del contenimento della spesa, se il presidente del consiglio si prodiga in nome dei giovani condannandoli alla Gelmini, se come dice il Simplicissimus si vuol curare l’Europa malata di liberismo con la malattia. Perché non si è certo disfattisti se si osserva che le ricette del liberismo e della turbo finanza non devono essere così efficaci per i popoli, se a fronte dei un debito pubblico formidabile l’Italia è il Paese occidentale che registra più disuguaglianze e uno stato sociale sempre più impoverito e inadeguato.

E succede paradossalmente che nazioni demoralizzate scelgano i governi che corrispondono meglio all’illusione di allearsi con il capitalismo senza morale e senza scrupoli, sperando di salvare il poco che hanno. Istanza illusoria appunto perché se all’enorme volume di attività finanziarie non corrispondono attività reali, si producono un circolo vizioso inflazionistico e inevitabili effetti recessivi, con una ridistribuzione perversa delle risorse.
E con un messaggio simbolico di tremenda iniquità: i giocatori d’azzardo non devono i loro guadagni al lavoro ma alla fortuna di pescare il jolly, all’astuta gestione delle carte, a un sistema truccato con l’aiuto di politiche monetarie che escludono dalle loro contabilità l’inflazione finanziaria, insomma a un meccanismo con pochi rischi, che non crea ricchezza reale e favorisce immaterialità e instabilità.

Si sono demoralizzata, perché non c’è niente di dietrologico o complottista nell’aver paura del peso bancario nei governi, se in barba ai conflitti di interessi si attribuisce ad esso una potenza salvifica. Grazie all’abnorme espansione finanziaria sono le banche a aver riacquistato egemonia a danno degli Stati nella creazione di “moneta”. E la moneta non è la terra, non è il grano, è una tremenda aleatoria convenzione e quando il gioco di prestigio di estrarre sangue da una rapa, o reddito da un capitale virtuale, si fa rischioso, allora il valore scende e, per dirla con Galbraith, gli stolti sono separati dal loro denaro.
Il capitalismo diventa più ebbro di accumulazione e profitto, quindi più cieco e forse più autodistruttivo. Ma i poveri diventano più poveri. I ricchi più ricchi. E i Paesi meno democratici.

martedì 15 novembre 2011

Contro Silvio a colpi di Fiorello


di miss Apple

Fiorello Rosario, show man delllo showbiz italiano non piace alla sinistra: non si dichiara, non si espone, non si schiera. E allora diventa berlusconiano. Chi non si dichiara è di destra anche se fa battute non proprio leggere sull’ex premier.
Ieri sera ho visto lo spettacolo di Fiorello, devo dire che era molto sotto tono rispetto alle serate messe in onda da sky, un anno fa, ma la forma c’era, e il talento pure.
Ha parlato delle dimissioni di Berlusconi, ovvio. come non approfittare dell’argomento del momento? E ci è andato giù pure pesante, ha fatto battute piuttosto pungenti, credo che abbia pure superato Crozza, in vari momenti. ma lui non ha l'investitura di satirista politico, no. Lui è un ex animatore di villaggi turistici -cosa c’è di male, poi, nel lavorare a sedici anni in un villaggio turistico, ancora non so.
Lui veste Armani, si presenta elegante. lui era amico di Mike Bongiorno, ha tutte quelle cose che fanno pensare a lui come ad uno yes man.
Ieri ho visto un buon spettacolo, non bellissimo, ripeto, ma divertente. Fiorello non è Crozza, strana gente quella della sinistra italiana: tollera Travaglio (uomo di destra, ma parla di Silvio) e non capisce quanto sia irriverente una battuta su Berlusconi, la via Salaria e il culo della Merkel.
Pazienza, non sarò di sinistra nemmeno io. Me ne farò una ragione

domenica 13 novembre 2011

Per Monti e valli di lacrime

di Alberto Capece Minutolo

Ci sono persone che quando non sono d'accordo con te ti invitano a leggere ad approfondire: uno sprone gradito fino a che non scopri che le letture invocate non sono altro che un coacervo di articoli di riviste più o meno interessanti e di informazioni di seconda mano, di opinioni interessate che non vengono mai confrontate con i testi originali e con le idee, le teorie di fondo sulle quali si appoggiano . E' la cultura di oggi in cui scrittore e lettore, emissario e destinatario sono complici di un bluff, consapevole o meno.

E' un problema di fronte al quale mi sono trovato di fronte proprio in questi giorni di avvento del commissario Monti e di liberazione da Berlusconi per mano della Bce. Personalmente è un periodo che vivo malissimo per la  dicotomia tra una speranza finalmente realizzata e il modo imprevedibile e negativo in cui si è realizzata. Di Monti sappiamo quasi tutto: della sua appartenenza  al cuore del pensiero neoliberista e finanziario ai suoi trascorsi europei di cerbero antitrust, forse è sfuggito solo il suo ruolo di advisor della Coca Cola: lo sappiamo a tal punto che si è verificato un singolare, demenziale e insincero scambio di ruoli tra la destra e la sinistra. La prima liberista da sempre, da sempre a tutela dei privilegi di pochi, favorevole all'evasione e alla mancanza di regole ora grida alla perdita di sovranità e all'uomo nero della finanza che ha scalzato Silvio, la seconda invece plaude all'uomo che farà esattamente ciò contro cui la sinistra si batte.

Ma chi è in realtà Monti al di là delle cose dette e stradette in questi giorni? Può darsi che le nostre impressioni siano tagliate con l'accetta e sostanzialmente sbagliate? Così ho voluto andarmi ad approfondire l'unica ricerca in campo economico per cui l'uomo è conosciuto al di là delle sue cariche accademiche e delle sue attività bancarie da una parte e dall'altra dell'atlantico. Si tratta del modello Klein Monti, che studia il comportamento di una banca in regime di monopolio, una condizione astratta e ideale come quelle che spesso gli economisti inseguono per trovare il nocciolo dei meccanismi più basilari. E' probabilmente un tipo di approccio che ha fatto il suo tempo, (questa è un' opinione personale), ma non per questo poco significativa del paradigma culturale in cui esso nasce. Tranquilli non voglio affliggervi con la matematica, peraltro facile, che il modello Klein monti comporta, né deliziarvi con considerazioni specialistiche, ma solo con la tendenza di fondo che esso esprime. Vi chiedo soltanto un po' di attenzione.

Naturalmente una sola banca senza alcuna concorrenza si trova a gestire prestiti e depositi in modo ottimale per la massimizzazione del profitto. Ora Lawrence Klein e Mario Monti suppongono che le condizioni di liquidità, il controllo professionale dei rischi e in alcuni casi la presenza di un'assicurazione contro di essi, rendano di fatto impossibile il fallimento. Dunque i clienti che depositano i loro soldi non corrono alcun rischio e perciò possono essere remunerati con interessi assai minori rispetto a quello praticato sui prestiti. A questo si aggiunge il possesso di titoli che serve come massa finanziaria per aumentare l'attivita di credito.

Da questa astrazione passiamo alla realtà che è più complicata, piena di agguati e dove i rischi esistono. Cambiano di molto le cose? In realtà no perché il modelo Klein Monti oltre a essere un'ipotesi di studio, è soprattutto un auspicio, una weltanschauug creditocentrica, un dover essere della finanza. Se è'vero infatti che la banca ideale monopolista ha probabilità nulle di fallire, anche per quella reale questa possibilità è remotissima visto che, come è accaduto in questi anni, sono gli Stati a fare da paracadute per le banche. Esse possono quindi non solo ottimizzare la differenza tra interessi sui depositi e interessi sui prestiti, ma sono anche abilitate a creare denaro per ulteriori prestiti tramite titoli che non sono altro che la scommessa di rischio sui prestiti: questo è alla fine il meccanismo perverso dei junk bond che si basa appunto sul presupoosto che nesuno lascerà davvero fallire gli istituti di credito.

La carriera di Mario Monti parte dunque dal modello della banca ideale per passare poi alla gestione di quei meccanismi di imperio della finanza che rendono "ideali" anche le banche reali, comprese quelle teoricamente fallite, ma sostenute dai soldi pubblici. Se così non fosse, se depositare i soldi in un istituto di credito costituisse un rischio tangibile allora il singolo che "presta" i soldi alla banca dovrebbe essere remunerato con interessi vicini a quelli che la banca fa a coloro cui presta denaro. E' anche per questa ragione che i governi inglese e olandese hanno indenizzato al 100% i propri cittadini rimasti coinvolti nel crack delle banche islandesi, pur essendo queste istituti del tutto privati e pur essendo i malaccorti investitori consapevoli dei rischi di mercato. La stessa cosa non sarebbe di certo accaduta se il valore di quei titoli spazzatura fosse semplicemente evaporato dentro la crisi finanziaria, senza implicare il fallimento degli istituti di credito che li avevano creati e distribuiti.

Questo meccanismo che non si applica nè alle imprese, né alle società quotate e tantomeno ai singoli non prevede tuttavia l'inverso: se la banca di fatto non fallisce grazie al prestatore di ultima istanza e cioè allo Stato o meglio ancora ai suoi cittadini che producono valore lavoro, non è così per lo Stato stesso dal quale si pretende che abbia sempre i conti in ordine non essendoci alcuno, se non altri Stati, a poter intervenire in caso di fallimento. Abbiamo insomma un modello ideale che descrive l'universo dei rapporti finanziari nel mondo liberista, la spiegazione della teoria dello stato minimo, dell'aggressione al welfare considerato come spreco e insomma la visione della società non come corpo complessivo con le sue dinamiche, ma come agglomerato statistico di singoli. Una visione che si è voluta rendere concreta attraverso le diverse ideologie o sub culture che predicano il frazionamento corporativo, sessista, aziendale, familiare, di clan o semplicemente singolo dei diritti.

Non c'è altro motivo per ritenere il debito degli stati così pericoloso per l'economia se non andasse a toccare proprio questa rete di sicurezza "pubblica" della finanza privata da cui le banche traggono i loro pingui bilanci  e se non mettesse in pericolo l'espansione del credito finanziato con i titoli di Stato. E questa non è un'opinione, ma la semplice realtà: il boom economico americano ed europeo del dopoguerra si generò in presenza di debiti che andavano dal 600% del Pil della Germania, al 400% dell'Italia, al 290% della Francia e al 180% degli Usa. Questo, tanto per la cronaca, a fronte di tassazioni che arrivavano da tutte e due le parti dell'Atlantico al 90% sull'aliquota superiore.

Nel 1773 Amschel Rothschild diceva: "Mi si consenta di emettere e controllare la moneta di una nazione e non mi preoccuperò affatto di chi emana le leggi". Ed è questa in effetti la filosofia che sta dietro al modello di Klein Monti e all'europeismo a tutta prova del premier designato e del circolo di trilateristi, uomini di banca, giuslavoristi e tecnici che si affollano al capezzale dell'Italia: che la moneta unica è già tutta la politica possibile per l'Europa perché la finanza e la moneta sono la politica. Certo quando Rothschild diceva quelle cose mancavano ancora 16 anni alla drammatica chiusura della sala della Pallacorda e alla succesiva presa della Bastiglia, la Kritik der reinen Vernunft sarebbe uscita 8 anni dopo, Hegel aveva 3 anni, Marx sarebbe nato 45 anni dopo, era difficile immaginare l'esplosione dei diritti e delle rivoluzioni che non hanno reso la vita facile al capitalismo monetario. Quindi oggi è bene preoccuparsi che le leggi le faccia chi già gestisce la moneta, se non altro quando questa è in pericolo.

E del resto passando da Rothschild a un altro magnate più moderno, quel David Rockfeller fondatore della Trilateral e del gruppo Bilderberg sappiamo che:"Il mondo è pronto per raggiungere un governo mondiale. La sovranità sovranazionale di una elite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente preferibile all’autodeterminazione nazionale praticata nei secoli passati." E ancora: "Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la "giusta" crisi globale e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale.
Non riusciremo mai a ringraziare abbastanza Berlusconi e la classe dirigente avida e mediocre di questo Paese per averci concesso l'onore di essere la cavia ufficiale.

sabato 5 novembre 2011

Alluvioni di affari


di Margherita Nikolaevna

Una bizzarra turba di ansimanti/ alberi, siepi alla deriva/ e case in fuga nei fiumi/ è ciò che videro i vivi: con queste parole Montale traduceva la Tempesta della Dickinson, dando ai versi dell’inquieta poetessa vestita di bianco l’impeto dell’evento eccezionale. Il fatto è che eccezionale la tempesta non è più: non solo come turbolento fatto atmosferico, bomba d’acqua in lotta tra il calore anomalo della terra e il primo freddo autunnale, ma soprattutto come disastro ambientale.

Solo negli ultimi due anni il bilancio delle vittime delle alluvioni in Italia è stato pari a un bollettino di guerra: quasi 70 morti distribuiti in modo diseguale tra Sicilia, Campania, Lazio, Toscana, Marche, Romagna, Veneto e Liguria (proprio la Liguria di Montale). Sono morti senza pace, spesso senza corpo. Con impressionante frequenza si ripete lo stesso copione di soccorsi, gare di solidarietà, protezioni civili, primi cittadini, presidenti operai, ministri, professionisti della sofferenza (Nicola Valletta li avrebbe definiti fascinatori), esequie solenni con applausi alle salme, promesse finali – puntualmente astratte – di interventi radicali e fondi straordinari.

Colpisce, in questa catena seriale di sciagure naturalistico-mediatiche, il dibattito sulla prevedibilità dell’evento: come se l’imprevedibilità di un’alluvione potesse rendere tollerabile la mancanza di una politica di conservazione del territorio, di una lotta sistematica all’abusivismo endemico, di un apparato di soccorsi che non collassi alla prima emergenza per carenza di mezzi. Curiosamente, l’incapacità italica di prevedere i disastri si accompagna al talento di trasformare la ricostruzione in affari lucrosi, come è avvenuto dopo il terremoto dell’Aquila con la creazione inutile di quelle stesse new towns che Bertolaso tentò di imporre – invero con scarso successo – agli alluvionati di Messina.

Altro fenomeno perverso (non atmosferico ma antropologico) è quello delle alluvioni verbali collegate a quelle reali. Libero ha dato la colpa della furiosa tempesta di Roma a Rutelli e Veltroni, tutti “feste e notti bianche”. Matteoli, di fronte al disastro ligure, è riuscito a dichiarare come l’ispettore Clouseau “è molto peggio di quanto immaginavo”. D’altronde solo pochi mesi fa il vicepresidente del CNR Roberto De Mattei, estendendo la nostra accezione personale di disgrazia, dichiarava a Radio Maria – a proposito dei terremoti – che le grandi catastrofi sono una voce paterna della volontà di Dio, che ci richiama al fine ultimo della nostra vita. Laicamente parlando non c’è scampo: se Dio è ostile, entra in campo la Protezione civile…
Due anni fa la Sicilia sembrava immersa nelle atmosfere di Carver: il presidente della Regione si faceva fotografare sorridente sulla tomba di fango con un elegante giubbotto di camoscio non particolarmente adatto alla circostanza. Adesso lo stesso presidente, indagato per mafia come il suo predecessore, tace sulla messa in sicurezza delle zone alluvionate ma intende ricostruire il tempio di Giove a Selinunte (con sacerdoti assunti direttamente dalla Regione?). Forse le nuvole non potranno essere fermate, ma gli uomini sì.

giovedì 3 novembre 2011

La ruota della fortuna


di Anna Lombroso

Ho sempre pensato che un ingrediente indispensabile per un leader sia la fortuna. Così come per una brillante carriera. E penso anche per certe nazioni, quelle ad esempio toccate da una sorte benevola che le ha risparmiate dalla guerra in casa, non esonerandole dal condurla fuori. Perché la fortuna non rende comprensivi di chi non la possiede o non ne è accarezzato. Anzi, rende, si direbbe, implacabili e irridenti della scalogna, sprezzanti delle disgrazie, dimentichi della propria inazione nel conseguire il successo. Così il fortunato resta sorpreso e risentito quando la dea si gira da un’altra parte e si innamora di un altrettanto immeritevole.

Si me li immagino così come pugili suonati: Berlusconi che starà contrattando una uscita politica e giudiziaria incruenta, spaventato dal troppo tempo libero che lo aspetta a meno che Putin non gli regali una provincia dell’impero; Draghi banchiere gaté vezzeggiato all’estero e osannato in patria che tenacemente e pervicacemente aveva perseguito la sua profezia auto avverante e che ora si trova malsopportato in Europa, inutile in Italia, impotente nella tanto amata globalizzazione, incompreso perfino dagli indignados. Per non parlare di Tremonti, la cui speranza doveva farci paura molto prima del fortunato bestseller e che aveva costruito un’aspettativa sul sortilegio di una discreta educazione, di amicizie altolocate nella finanza audace e rapace, di una provvidenziale erre moscia che lo collocava tra i ragazzi bene rispetto ai maleducatissimi giovinastri del governo, della possibilità di dire sciocchezze infami in due o tre lingue. E soprattutto di una gran buona sorte.

Uniscono i fortunati oltre a un destino favorevole, l’ingratitudine e la spietatezza. Un’avida e implacabile determinazione ad arrivare che li ha resi protagonisti e motori della rovina di molti, anche attigui, amici, sodali, per il proprio bene e interesse personale, che li ha resi ciechi davanti alla possibilità che l’onda malefica sulla quale avevano soffiato come un vento potentemente crudele, potesse travolgere anche loro insieme a noi.
E li accomuna anche una disconoscenza smargiassa nei confronti di chi li ha aiutati, compresa la fortuna. Perché appena “arrivano”, appena si realizza la loro ambizione sotto forma di successo , denaro, ruolo primario nel film, vincita all’enalotto, immediatamente si convincono e voglio persuaderci che è merito della loro dotazione di bravura, competenza, intelligenza, creatività. Unite a una laboriosità, eccezionalità e potenza che a volte permettono loro di governare a tempo perso.

Personalmente sono invece equipaggiata di una certa radiosa dabbenaggine che mi fa ritenere di essere fortunata. Una convinzione che mi rende piena di gratitudine nei confronti della vita, della bellezza, del sapere e di chi amo e mi ama, estendendo i miei sentimenti un buon numero di persone.
Ma mi hanno fatto essere risentita oltre che incollerita. E gradisco che certi immeritevoli fortunati siano nella polvere. Sorte toccata a virtuosi, a eroi fieri o miti, a anime semplici nelle quali magari per un momento rifulse la virtù e che ne hanno fatto dono agli altri, insomma a testimoni dell’agire umano quando è ispirato dalla generosità, dalla fiduciosa solidarietà. Anche loro dovevano misurarsi col volto capriccioso e incostante della fortuna. E per noi laici è anche confortante collocare in una posizione secondaria la presenza nel mondo della provvidenza , disegno divino indirizzato consapevolmente a un fine o a un risultato da consumare post mortem, mettendo in primo piano il combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalità trascendente.

Ma i nostri unti della sorte pensano che Machiavelli sia un autore di riferimento per l’esercizio sfrontato del cinismo e del disincantato pragmatismo. Eppure li avrebbe resi avvertiti che l'uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna, arbitra solo della metà delle cose umane. Perché sul resto si devono “regolare” gli uomini, semplici cittadini o principi, meglio se virtuosi. Ecco è qui che manca la materia prima, non sappiamo se siano uomini, non sono cittadini, meno che mai principi. E l’unica virtù che conoscono risiede nell’aver resi pubblici i loro vizi.