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mercoledì 16 ottobre 2013

16 ottobre, il ricatto dell'oro non paga

di Anna Lombroso



Pioveva, pioveva quel sabato mattina del 16 ottobre 1943. Le belve, oltre cento, armate di mitra circondarono il ghetto attorno alle 5,30. Contemporaneamente altri duecento militari si distribuirono nelle 26 zone operative in cui il Comando tedesco aveva diviso la città alla ricerca di altre vittime. Quando il gigantesco rastrellamento si concluse erano stati catturati 1022 ebrei romani. Due giorni dopo in 18 vagoni piombati furono tutti trasferiti ad Auschwitz. Solo 15 di loro sono tornati alla fine del conflitto: 14 uomini e una donna. Tutti gli altri 1066 sono morti in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. E nessuno degli oltre duecento bambini è sopravvissuto.

Conoscevo bene Robert Katz, lo aiutai un po’ nella raccolta di documenti preliminare alla stesura del suo libro sul caso Moro. Arrivava nel centro di ricerca con il quale collaboravo, in sandali francescani anche d’inverno, si sedeva  davanti a pile di giornali impolverati e si chiacchierava si chiacchierava. C’era un tema obbligato tra noi: la responsabilità. Ne era ossessionato, parlandone gli occhi dardeggiavano intorno, si tirava la barba rabbinica e si dondolava avanti e indietro come fanno gli ebrei recitando il kaddish, la preghiera del lutto. Così si tornava a parlare del sabato nero di Roma – che era poi il titolo che aveva dato al suo libro sul rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma, al prima e al dopo quel giorno buio e tremendo. E inevitabilmente pur essendo d’accordo, si discuteva animatamente del ruolo della dirigenza della comunità ebraica, del discusso rabbino di allora, quel Zolli più noto per la sua conversione successiva che per la sua lungimiranza di prima e di quell’oro maledetto, versato per salvarsi con un patto che non venne rispettato, ben noto agli alleati, che non fecero nulla per evitare il crimine.

L’ordine di procedere al rastrellamento, Kappler,  capo delle SS a Roma, l’aveva ricevuto già il   25 settembre: prende tempo insieme al console tedesco, Eitel Friedrich Moellhausen, e al Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Sud Italia, che non concede immediatamente l’appoggio militare all’operazione, per condurre la trattativa per l’ultimo ricatto. Convoca infatti a Villa Volkonsky, sede del comando tedesco a Roma, i massimi rappresentanti della comunità ebraica Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma e Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane  per proporre il “versamento” di   cinquanta chili d’oro in cambio della salvezza. In molti, forse anche il Vaticano, si mobilitano e la consegna dell’oro raccolto tra ebrei e non ebrei, tutti romani comunque, avviene  a Via Tasso, al numero 155 che non era ancora il famigerato carcere delle SS, luogo di torture e terrore che diventerà in seguito, ma almeno formalmente “l’Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania” ( è ora sede del Museo Storico della Liberazione). Kappler non si presenta, ritiene degradante partecipare alla pesatura,  eseguita con una bilancia della portata di 5 chili, registrata  con puntigliosa precisione da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che la fa ripetere due volte per essere sicuro che gli ebrei non l’abbiano imbrogliato.

A imbrogliare invece furono i nazisti, Kappler, Kesserling, che sapevano bene che l’ordine era stato solo rinviato, che era già partito con destinazione Roma  il Capitano delle SS Theo Dannecker, uomo di fiducia di Eichmann per procedere alla deportazione e accelerare  i tempi.
Il misfatto si compie. Sottostare al ricatto non è servito
Eppure il rabbino aveva sospettato da tempo: fin dalla firma dell’armistizio aveva  proposto di cessare le funzioni religiose, di distruggere le liste dei contribuenti e degli iscritti alla comunità, di stanziare fondi per i più poveri e di invitare tutti gli ebrei a lasciare le proprie abitazioni e a nascondersi. Eppure le comunità di Ancona e da quella di Pisa, avevano convinto i rabbini a non officiare in occasione del Capodanno ebraico. Eppure il professor Jona, presidente della Comunità di Venezia aveva scelto di suicidarsi per non consegnare gli elenchi dei “suoi ebrei”. Eppure la convinzione che la comunità romana potesse godere della protezione dell’ala amica del Vaticano, si era rivelata illusoria: il papa non si era mai espresso ufficialmente in tal senso. Così come ingannevole era la supposizione che “nessuno era più romano de Roma dei suoi giudii” e che l’appartenenza antica e sentita alla cittadinanza li avrebbe tutelati, anche se ci fu qualche italiano brava gente che ospitò i fuggiaschi e rischio della vita.

Molti storici, soprattutto tra quelli che indagano sul ruolo delle passioni negli eventi, nei conflitti e nello svolgersi della storia, si sono interrogati sul consolidato persistere della fiducia cieca in una ipotetica salvezza, anche a fronte di accertate minacce. Sul perché a dispetto di autorevoli Cassandre, milioni di uomini e tra questi arguti intellettuali, competenti professionisti, sopraffini pensatori, si siano fatti condurre al macello come bestiame inconsapevole. O in che cosa consistesse la volontà di non credere fino al non vedere quello che sta avvenendo.
Ho un esempio familiare: mio papà va in Germania nel ’36 per quella ostinata smania di sapere, di vedere coi suoi occhi. Torna e va a cena dai genitori. Tutti sono intorno al tavolo coperto dalla bella tovaglia ricamata, la fedele Margherita scodella col mestolo del servizio San Marco la zuppa nei bei piatti di Sèvres col bordo verde ed oro e mio padre rompe il silenzio imposto da un padre molto autoritario raccontando concitato che in Germania confiscano le eleganti argenterie e le comode, calde case degli ebrei e li prendono, li portano via dalle case, li portano in campi di lavoro dai quali nessuno sembra tornare. E che bisogna andarsene in America dove c’è Hanry e altri, anche se lui, resterà, perché c’è da fare per un giovane come lui che vuole abbattere il fascismo e con esso lo sfruttamento, il disonore della perdita dei diritti, per riscattarsi e riprendersi la libertà. Non partirono i nonni e nemmeno gli zii e nemmeno la fedele Margherita, che stesse nascosta in un retrocasa come quello di Anna Frank.

Per quello non bisogna dimenticare. Perché tutto può ripetersi anche l’innominabile e l’incredibile. E continuamente si ripropongono ricatti che molti pensano di dover subire per salvare se stessi, piccoli beni, mediocri privilegi. Continuamente la storia avvitandosi si se stessa ci mostra due strade, una nota, quella della rinuncia a diritti e libertà, in cambio di opinabili e labili garanzie, che potrebbero assomigliare a quelli di Kappler, quella imposta apparentemente da uno stato di necessità ed emergenza. L’altra, sconosciuta, che impone di guardare, di sapere, di capire, forse più ardua, che esige di partecipare a immaginare altro da quello che ci obbligano a fare e pensare, e che deve essere la nostra strada.

lunedì 5 agosto 2013

La democrazia è conflitto: il grande oblio dei partiti

Se davvero si dovesse dire cosa non funziona più nella nostra democrazia e anche in altre, sebbene con sintomi meno evidenti del berlusconismo, è l'abbandono dell'idea conflitto. Conflitto tra idee, classi sociali, prospettive che una volta erano in qualche modo riconosciuto e incanalato dai  partiti mentre adesso giacciono dentro la cantina della storia come una carica di dinamite inumidita, ma pronta ad esplodere. Se domandiamo a 100 persone cosa sia la democrazia probabilmente 80 la ricondurranno solo alla ritualità del voto, che peraltro esiste, sia pure come un'avemmaria dopo un delitto, anche nei migliori regimi autoritari, mentre il restante 20 per cento penserà a un sistema di armonizzazione di interessi.

Il conflitto viene esorcizzato al pari della morte è sembra completamente evaporato dentro un sogno o un incubo, dietro un paravento di apparenze mediatiche e di pensiero unico che vogliono nascondere la realtà: il fatto che gli interessi sono ontologicamente contrastanti fra di loro. Le risorse che vanno al profitto non vanno al lavoro e viceversa, quelle che vanno alla finanza non vanno al welfare e così via per tutti i possibili sentieri percorribili alla luce di questi due esempi: qualcuno ci perde sempre, qualcuno ottiene un plus valore o subisce un minus valore. Non c'è nessun modo di evitarlo, di evadere a questa specie di termodinamica sociale anche se siamo esposti a pseudo verità truffaldine che ci suggeriscono di essere sulla stessa barca: la stessa barca è solo un'invenzione di chi non sta ai remi.
La democrazia nel suo senso vero è regolazione del conflitto, un sistema di governo che aggiorna continuamente i suoi instabili equilibri, li attualizza e li sottrae alla sclerosi della rendita di potere e di pensiero, che insomma rende possibile il passaggio da un punto all'altro sulla scala degli stati di equilibrio di una società.

Questo significa anche che la democrazia reale deve necessariamente essere aperta alla consapevolezza che non esiste un' unica realtà possibile e/o un solo assetto possibile da gestire in nome di una "verità indiscussa" dentro la quale il consenso, ormai facilmente ottenibile grazie a un illusionismo mediatico di massa, viene speso solo per rafforzare e introiettare il pensiero unico. Il metodo democratico è necessario, ma tutt'altro che sufficiente alla democrazia e purtroppo dall'inizio degli anni '80 abbiamo assistito a un drammatico svuotamento di sostanza, man mano che tutto si riduceva, talvolta in maniera ossessiva, come dimostra il politicamente corretto, a forma volta e a una astuta amministrazione del capitalismo. La caduta del muro e il disfacimento dell'Unione sovietica ha reso poi ufficiale l'esistenza di una sola forma di "verità" sociale. Ovvio che dentro questo schema l'idea del conflitto fosse da combattere, esorcizzare e ridurre a imposizione, magari vellutata e consensuale di una realtà indiscutibile, chiamando le vittime a credere senza tentennamenti al boia che annoda il cappio.
Ed è così che i partiti, abbandonata alle ortiche l'idea della conflittualità espressa dalle classi o ceti sociali che la incarnavano, si sono man mano trasformati solo in centri di potere e di pressione, rinunciando completamente ad essere motori di idee, collettori di rappresentanza concreta di istanze e prospettive. Sono diventate collage di figurine sociali da collezionare. Il processo è stato per così dire mondiale, anche se in Italia ha finito per assumere toni farseschi e per dare espressione solo agli istinti di doppia morale e menefreghismo etico, tipico di una cultura ampiamente arretrata rispetto alle sue stesse conquiste. Producendo dunque corruzione, illegalità e arroganza o interessata complicità nel tollerare tutto questo.

La cosa un po' buffa, quella che ci riguarda da vicino, che ci tocca nella vita e nel futuro è che l'idea della democrazia come conflitto e come sistema di governo "in progress" era nato con quello che viene chiamato "compromesso keynesiano" : la presenza di una rivoluzione comunista attiva e di enormi surplus produttivi dopo il disastro finanziario di Wall Street, aveva costretto il capitalismo e la stessa scienza economica a partire non più dall'offerta, ossia dalle esigenze della produzione, ma dalla domanda come fattore centrale di sviluppo. Domanda aggregata significa salari, diritti, welfare, significa attenzione sociale, tutte cose che paradossalmente stiamo eliminando proprio quando, dopo l'orgia liberista, il pensiero di Keynes viene rivalutato e si vede con una certa chiarezza, nonostante i molti tentativi di nascondimento e i molti tonfi "scientifici", per così dire, che senza domanda aggregata l'economia non funziona. Dunque anche senza senza i correlati sociali, l'apertura di idee, il senso del conflitto che vi si accompagna.  Però non abbiamo più nemmeno gli strumenti attraverso cui tutto questo veniva filato, ossia i partiti che regolavano lo scontro e si facevano portatori di prospettive che immettevano nuove idee di equilibrio nel tessuto sociale. Ci sono ancora come nome, ma sono solo collettori di un consenso allo stato brado, rozzo e confinante con la clientela o con la credulità mediatica. E del resto è questo il destino e l'esito di contenitori anodini che vogliono rappresentare tutto e tutti e finiscono per rappresentare solo se stessi.

Per questo siamo davvero nudi di fronte a una crisi di un capitalismo senza più meccanismi regolatori. E ammutoliamo invece di gridare di fronte all'indecenza di un potere che ormai rappresenta solo se stesso.

giovedì 18 aprile 2013

Bersani secondo Manzoni


di Alberto Capece

Sparse le trecce morbide
di bambole sul letto
votò col passo incerto
e cereo nell'aspetto

S'alza il compianto unanime,
si scopron gli altarini.
Ei fu. Siccome immobile,
perso il fatal Marini,

stette Bersani immemore
solo coi malandrini
del cavalier pompetta
che ride senza remore.

Così percosso, attonito
il partito se ne sta
muto pensando all'ultima
occasione con Rodotà.

Fu vera paranoia? Ai pontieri
l'ardua sentenza: noi
chiniam la fronte al Massimo
Baffino che volle in lui

dell'inciucio perenne
ancora l'orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia di un gran disegno

l'ansia di un cor che indocile
trama pensando al regno
dei pascoli di Siena
inviati contrassegno.

Ora però gli inciuci
han proprio rotto il cazzo:
se non vuoi far politica
e ami l'intrallazzo

rimetti il tuo mandato
torna alle bamboline
da pettinare all'onda
con vesti in popeline

Bianco fiore di Marini

di Mariaserena Peterlin

Ma te guarda i communisti
tutti in veste bianco-fiore
che, lo dico ai regazzetti,
era il simbol dell'amore
che sfogliava piano piano
il marpion democristiano....

Col cappello dell'alpino
e la pipa succulenta
te propongono il Marini 
che al caimano s'apparenta.
Tempi neri tempi cupi
quando tornano li lupi?

domenica 31 marzo 2013

Lo scherzo, la poesia, il tempo. Un saluto a Giovanni Perich

di Alberto Capece

Il tempo della vita è quello della catastrofe, della divergenza, non quello dell'ordinato e lento mutare delle cose. E' il tuono improvviso, la caduta e il panorama inaspettato, non la maturazione del vino nella botte, il cauto volere che indugia e anche l'attesa diventa il flash del raggiungimento, l'istantanea che già declina il passato. O, al contrario, a volte è il ricordo si estende dentro un illusorio presente fino a che il peso del tempo non fa crollare gli incerti prolungamenti. Il cedimento improvviso mentre si è ancora sul ponte, ancora così terribilmente giovani.

Accade. E a me è accaduto oggi che ho saputo della morte di una persona che non saprei definire: non era in senso proprio un amico, né un maestro, né un compagno di esplorazione del mondo, né un sodale o una semplice conoscenza. Era un possibile lievito, qualcuno che non avrei voluto essere, ma che per qualche verso ero, qualcuno che non capivo perché non mi capivo, qualcuno così distante da ritrovarmelo alle spalle.
Giovanni Perich, poeta e piccolo romanziere, conosciuto quando, ancora molto giovane, diventò il mio professore di italiano al liceo e con il quale in seguito riuscii a non condividere quasi nulla se non una sorta di ambizione letteraria. Sembra impossibile che sia morto, quando ancora mi irrito all'idea che non abbia apprezzato una sciocchezza abbozzata in un tema su Manzoni: che l'autore dei Promessi Sposi avesse preso per autenticità italiana la sua provincialità.

In compenso mi fece scoprire Sereni e Luzi, proprio lui che ne era poeticamente l'opposto. Ricordo i pomeriggi passati nella sua casa di via del Piombo, a Bologna, a pochi metri dalla casa di Giorgio Morandi e dal mausoleo Carducci: si facevano piani per una rivista letteraria, si sognava e si vedevano scendere sere desolate, assieme ad un amico della mia infinita adolescenza, Pier Damiano Ori. Ed è assieme a lui che ogni tanto gli facevano degli scherzi feroci: la gelatina nella vasca da bagno dove da solitario metteva a bagno i suoi panni, così che se li ritrovò ricoperti come in un delizioso aspic di magliette e mutande. Oppure l'altro scherzo, quello di cui non ha mai saputo e che ora è possibile raccontare.

In quel periodo insegnava al liceo Augusto Righi e avevamo notato come ogni tanto si perdesse dietro a descrizioni e impercettibili fantasie sulle sue alunne. Così con feroce rapidità organizzammo una burla. Un pomeriggio gli facemmo telefonare da una nostra amica di università che si finse un'allieva del Righi, anche se non delle sue classi, la quale con voce esitante gli chiese se poteva passare venirlo a trovare a casa.
Quasi morimmo dal ridere quando gli sentimmo dire, dalla stanza da letto, dov'era il telefono: "Ma certo cara vieni quando vuoi". E non so come facemmo a resistere quando il tardigrado poeta divenne un lampo nel cercare di rimettere un po' a posto gli ambienti e si fiondò a comprare una bottiglia di Martini dry, coca cola e sigarette. Poi come concordato, proprio mentre si apprestava a sbatterci fuori, ecco che la nostra amica richiama e con voce pentita dice: "Professore, io vorrei venire, ma mi manca il coraggio" . La desolazione del volto con cui ci annunciò che non sarebbe più venuta, permettendoci di stappare la bottiglia ce l'ho ancora negli occhi.
La cosa doveva finire lì, ma un qualche istinto ci spinse a non togliere il coltello da quella scalfittura e cominciò così una corrispondenza via fermo posto con Elena, la ragazza misteriosa, che era sempre sul punto di comparire sulla sua soglia, ma che non la varcò mai. Una piccola tempesta di tenerezze e di dinieghi che durò anche due mesi, quando dovemmo smettere perché lui era ormai deciso a mettere le mani sui registri della scuola per rintracciare quell'audace e ritrosa studentessa.

Tutto sembrò affondare in breve tempo dentro il territorio carsico della memoria ed Elena sembrò sparire così com'era comparsa. Fu solo una decina di anni più tardi, dopo la diaspora dovuta al lavoro e a quel po' di età adulta recuperata a fatica, che una sera, parlando del passato, Perich ci confessò che in fondo l'amore più intenso della sua vita era stata Elena. " Vi ricordate, quella delle lettere".
Certo che ci ricordavamo, anzi eravamo noi. E fu anche questa una catastrofe a suo modo, un tuono sulla vita e sulla sua fragilità..
Così adesso che per Giovanni è arrivata "la lunga notte che divento niente" scavo tra le sue poesie per trovare l'eco di quella vicenda e assieme del suo essere, come in uno di quei pomeriggi che la nebbia appannava i vetri e dentro la vita mormorava:

 Preparare la non sopravvivenza

nello scempio benevolo

dei vivi; fin da ora

libero dal fastidio di sapermi

ancora ombra dove

è, per gli altri, la vita

carne e sangue, e mangiari e odori e amori.

giovedì 28 marzo 2013

Le ridi di marzo


di Mariaserena Peterlin

28 marzo dell'era Bersani


Soffermato a sinistra su sponda
dall'impervio ostinato grillino
tutto assorto nel proprio destino
perso il filo di antiche virtù
l'ha giurato: “non sono venuto
a smacchiare gli insetti molesti
e tra grilli, giaguari e somari
questa volta si perde alla pari

Il Battiato Traviato

Di quel Battiato
già vogliono lo scalpo
di sdegno inondano
l'universo intero
Crocetta, crocetta e delizietta
crocetta e delizietta
delizia al cuor(icin)....

mercoledì 27 marzo 2013

Bagatelle italiane


di Mariaserena Peterlin


IL 5_OLTRAGGIO

Ei fu
siccome Terzi
diede il fatal ritiro
e annuncia dimissioni
senza manco un sospiro

muto percosso attonito
il Monti al nunzio sta.




CUCCURUCCUCCù, Battiato

Battiato... ohh sì Battiato
ha certo esagerato
però le palombelle,
sian bianche nere o gialle
forbite saputelle,
si buttan sul becchime
difendono il mangime
fan "cuccuruccuccù
non farlo! no mai più!
Facciamo pulizia
cultura? pussa via!"

giovedì 21 marzo 2013

Consultazioni


di Mariaserena Peterlin

Or che Grasso con Boldrini
sono eletti a maggioranza
bravi stereo gemellini
dicon cose non di panza
ma leggendo i compitini
all’unisono fan danza.

 I giornali preoccupati
del programma a cinque stelle
del non esser finanziati
stan facendo tremarelle
ma gl’italici arrabbiati
son per queste e altre parcelle.

Mentre al colle soffia il vento
si ricevono opinioni
non c’è alcun che sia contento
(e si cambian pannoloni.)
Che succede sottovento
tra bersani e berlusconi?

L’uno par poco contento
e già teme dei bidoni
l’altro cela lo scontento
dietro i suoi neri occhialoni.
A chi arride il sopravvento?
A miscugli e coalizioni?

A chi giova il baccanale
del porcellum elettorale?
Cova il popolo sovrano:
“St’altra volta ve menàmo

lunedì 18 marzo 2013

di Mariaserena Peterlin



Con passi di schiavi
e senza scarponi
ci fanno marciare
per luoghi comuni


"Tra crisi e emergenze
accetta di tutto!"
proclama il potere
e noi tutti a lutto.


Si celebra e loda
l'Italia unitaria
e il civis italiano
è trattato da paria,


e mentre è vessato
tra tasse e decreti
nell'ombra si tramano
accordi segreti.

sabato 9 marzo 2013

L'orbo renitente


di Mariaserena Peterlin

Er poro berlusca
la vista ha un po' fosca
fu forse la dura
pozion di tintura
spalmata alle ciglia
e alle sopracciglia
oppur una spastica
da blefaroplastica?
Se l’occhio s’infiamma
fu un porno in programma?

Ma l'Ilda, la Rossa,
la testa ha già scossa:
smacchiatelo a breve
quest'è malafede!
S’inizi il processo
con l’occhio dismesso
la scusa è assai scarsa
finisca la farsa!

Berlusca imputato
con l’occhio bendato
chiamava il dottore
"ahiahi che dolore!"
E al colmo del male
controllo fiscale!

giovedì 7 marzo 2013

Poema di D'Alema


di Mariaserena Peterlin


"Mi ciuccio l'inciucio"
già disse il d'Alema
e al Monti e all’Alfano
non volgo la schiena!

Ma, ciuccia e rinciuccia,
s’ingrossa il pasticcio
e un grillo stellato
rivela il posticcio.

Rimira il d'Alema
perplesso la scena:
 "l'inciucio m'inciucia!
E non poco mi brucia

che i voti di destra
sian pure a sinistra
poiché che le elezioni
(italiani birboni)

ci han dato le stalle
insieme alle stelle.
Orbene, a strattoni,
se il no è a Berlusconi

io apro alla destra
che con manolesta
tra orge ed olgette
m'ha messo alle strette."

Il popolo freme
e poco si tiene;
“ Tra fischi si gema:
va’ fuori o d'Alema!” 

domenica 3 marzo 2013

Milano, provincia di Reggio Calabria


di Anna Lombroso

Bisognerà ricordare ai lombardi che hanno votato Maroni quando la Lega diceva forza Vesuvio, forza Etna, che le mafie erano una malattia meridionale e che la padania sana non poteva esserne contagiata. Bisognerà ricordare loro che hanno votato quelli che sedevano in Giunta con un assessore che aveva preso voti dalla criminalità organizzata. Intanto sarà bene che si leggano l’allarme dei servizi a proposito dell’Expo milanese del 2015 e la denuncia che le grandi opere di edilizia pubblica ("specie nella riqualificazione delle rete stradale, autostradale e ferroviaria") e il settore delle energie rinnovabili sono da tempo nel mirino della criminalità organizzata di stampo mafioso, la cui capacità di infiltrazione appare "sempre più pervasiva su tutto il territorio nazionale", grazie all’accentuata mobilità territoriale dei sodalizi che consente loro di inserirsi agevolmente in circuiti collusivi in grado di soffocare l'imprenditoria sana ed inquinare le iniziative di sviluppo anche attraverso l'aggiramento della normativa antimafia sugli appalti.

Secondo le indicazioni raccolte, "i gruppi criminali continuano a ricercare contatti collusivi nell'ambito della pubblica amministrazione, funzionali ad assicurarsi canali di interlocuzione privilegiati in grado di agevolare il perseguimento dei loro obiettivi economici e strategici, quali il controllo di interi settori di mercato e il condizionamento dei processi decisionali, specie a livello locale.

Da anni si sa del traffico internazionale di sostanze stupefacenti, pusher in tutti i quartieri, ma anche della penetrazione nei meccanismi degli appalti, degli appoggi incondizionati da parte degli esponenti degli enti locali, del supporto ai voti dei politici, del supporto di voti ai politici, delle compartecipazioni o proprietà di società quotate in borsa, di locali alla moda, di bar lussuosi, di SpA a San Babile, centri bio e palestre.
Non è una rivelazione che non ci sia settore merceologico, professione, attività profittevole esente da attenzione criminale: dagli ipermercati alle imprese di movimentazione terra, dalle ditte di distribuzioni alimentare e di fornitura come l’Ortomercato, alle società immobiliari, dall’acquisizione di intere vendemmie, alle ditte di prèt-a-porter, con una netta preferenza per comparti legali e sani, con qualche problema di liquidità, appropriati per la conversione di movimenti opachi, per accreditarsi in ambienti inesplorati, per dare “reputazione” a quanto era consigliabile mantenere invisibile.

Da un’analisi sulle imprese sequestrate emerge il quadro delle “preferenze imprenditoriali” delle mafie: al primo posto l’edilizia, il mattone compone il 42 % delle società sequestrate, confermandolo come il settore più permeabile alla penetrazione. Considerata la loro liquidità, le organizzazioni criminali battono la concorrenza nell’aggiudicazione degli appalti. Sono disposte a eseguire lavori in perdita pr riciclare denaro sporco. Senza contare che gli intrecci opachi dei clan con la politica e la pubblica amministrazione, favoriscono i cambi di destinazione d’uso, le scorciatoie e le licenze facilitate, così come l’aggiramento di controlli.

Gli altri settori oggetto delle attenzioni mafiose più pesanti sono commercio, turismo, ristorazione, agricoltura, intermediazione, energia e rifiuti, sanità, giochi e scommesse e servizi, occupati dai clan sotto forma di Srl o ditte individuali, anche con prestanome inconsapevoli.
Un nuovo core business, paradossalmente, è il settore della sicurezza: ditte che forniscono vigilantes, ditte di dispositivi di protezione, agenzie di buttafuori, eserciti di addetti alla security fuori dai localrei, controllori di posteggi.

Nella rimozione spesso complice del fenomeno, dalla fine degli anni Sessanta, soprattutto la ndrangheta – ma la concorrenza di altre mafie è sempre più forte - si è ramificata nel Centro e nel Nord Italia. A favorirne l’insediamento della pingue Val Padana, un provvedimento: il soggiorno obbligato imposto a alcuni appartenenti delle organizzazioni criminali, nato da una convinzione plausibile, lo sradicamento dell’autorevole esponente dei clan dal loro territorio. Si verifica da subito un processo inverso, a cominciare dai parenti, poi l’intera sfera “familiare” influenzata dal capo a “trasferirsi” importando usi e contaminazioni, sequestri di persone o serpeggianti infiltrazioni. Così non è stato il luogo a cambiare il criminale, ma il criminale a trasformare il luogo.

Detto così sembra che ci sia stata una invasione silenziosa di barbari provenienti da un Sud marcio, tossico e violento in un Nord pacificamente disponibile all’assoggettamento, coppole e lupare che pervertono l’indole onesta e operosa di ottusi polentoni. È che convenienza e triti stereotipi hanno preferito tacere di accordi e vincoli stretti per reciproca convenienza, di taciti compromessi concordati con scambievoli favori, voti, potere, accreditando l’ipotesi convenzionale di un parallelo virtuale, con la legalità, la laboriosità, l’onestà, su, e il malaffare, la sopraffazione, la violenza, giù. Basterebbe invece ricordare qualche caso esemplare e simbolico di quell’intreccio avvelenato tra sedicenti virtuosi e dichiarati trasgressori: a cominciare dall’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta sul suicidio di Raul Gardini, che avrebbe accertato i legami dei manager della Ferruzzi e della Calcestruzzi con Riina, già denunciati da pentito Messina nelle dichiarazioni rese a Borsellino nel ’92. O lo sfondo oscuro su cui si sono mosse gli attori del caso Parmalat, tra i quali fa spicco un nipote di Zagaria, secondo le regole e la tempistica di quello che il magistrato Cantone ha definito il “fattore 3 C”, convivenza, connivenza, convenienza, ben noto a esponenti di spicco della politica, gl Scajola, i Lunardi, convinti appunto che è realistico scendere a patti con la mafia, presenza inevitabile fino a diventare desiderabile.

Oggi la crisi dell’economia ufficiale sancisce la crescita dell’economia criminale, il cui moltiplicatore è alla base della piramide sociale, la gente impoverita che va dai compro oro, si rivolge agi usurai, mette la testa nel cappio. Ma la più fiorente azienda del Paese non si accontenta più delle fedi nuziali o dei gratta e vinci degli straccioni, sempre più ricattati perché più mafia significa costo del denaro più elevato e sempre meno prestiti. Le modalità, i metodi e le procedure del gioco d’azzardo della finanza creativa coincidono o mutuano reciprocamente con quelli della criminalità, si nutrono di corruzione, evasione, riciclaggio. Gli appetiti delle mafie sono insaziabili come quelli della finanza accumulatrice e rapace, e i luoghi diventeranno comuni: istituti di credito e banche sono oggetto di penetrazione di cupole internazionali, così come finanziarie e gestori di fondi. La globalizzazione ha trovato la tua terra senza confini e il suo humus più favorevole nel malaffare, è riuscita nell’opera che pareva impossibile di raggiungere l’uguaglianza più perversa tra Nord e Sud.

lunedì 11 febbraio 2013

Roma, la tempesta e Benedetto


di Mariaserena Peterlin

Ner cielo de ‘sta Roma tribbolata
da politici ladri e da papponi
oggi soffia un ventaccio e i nuvoloni
se rincorrono griggi all’impazzata.

Tu guardi in cielo e penzi “ce vorebbe
che tutta sta buriana che flaggella
tutti e romani e pure roma bella
fosse ‘na gran ramazza e pulirebbe

le piazze, er parlamento e i candidati
che se so fatti avanti a quattro mani
sicuri de fa er solito bottino

de voti coi quatrini già arubbati”.
Ma mentre soffia er vento maledetto
se porta via soltanto Benedetto…

venerdì 1 febbraio 2013

Voto amico


di Mariaserena Peterlin

Il voto a cui tendevi
la speranzosa mano
pel verde voto strano
o i bei rossi color
tra il muto elettorato
non rinverdì tuttora
né sondaggio ristora
la proiezione ancor…

Tu fior della sinistra
percossa e inaridita
l’Agenda hai rifilata
al povero elettor.
Non sei con l’operaio
non sei col proletario
non sei col magistrato
t’irride il professor.

domenica 27 gennaio 2013

Il Pierfurioso


di Mariaserena Peterlin

“Zitto, stai zitto!” borbottava Rosy
ner mentre Pierluiggi infervorato
dal palco fuoco e furmini mandava
contro chiunque avesse mai attaccato
l’integra, onesta e pura conduzione
der partito senza rifondazzione.
“Zitto che fai? immagina se invece,
a tua insaputa quarche malandrino
invece d’esse puro e immacolato
se fece venì voja der quattrino
e tra le pieghe de l’operazzioni
c’entascò na cartata de mijoni.”
“Io destra e lega l’ammazzo e me le magno!”
tuona Piggì feroce e intemerato
“A cchi? parla piano, che te magni?”
sibilava quarcuno alle sue spalle
“te magnerai le mano a tua insaputa
vacce più calmo, nun so’ rogne primarie
sbancato er banco, qui so’ finanziarie.”

domenica 20 gennaio 2013

Mazzabubù quante destre ci stanno quaggiù


di Mariaserena Peterlin

La Meloni candidata
col Crosetto è  apparentata,
poi c'è il Fini col Casini
e di Monti fratellini
ma non basta! Il Berlusconi
s'è rimesso gli speroni
e zompando ancora pensa
di portar qualcuno a mensa
Ma non manca Oscar Giannino
(di Landru pare il cugino)
che vestito in scozzesino
vuol sembrare un damerino.
Anche il Grillocinquestelle
va sgonfiando le rotelle
di Camusso e di Bonanno
anche se... fa poco danno!
Rimaneva il digiunante
dalla chioma ormai lampante,
ma l'offerta di Starace
anche a lui davver non spiace.

A 'sto punto l'italiano
col cerin rimane in mano
guarda invano alla sinistra
ma se pur Bersani insista
se non brucia quell'agenda
tira un'aria da tregenda.
Chiedo allor... Mazzabubù
quante destre stan quaggiù?

La tassa infuria
lavoro manca
qualcuno rischia
la scheda bianca?

Forse per caso
ma non per noia
dimenticammo
la lista Ingroia…


giovedì 17 gennaio 2013

Stornelli elettorali



di Mariaserena Peterlin


Fior de Nannini
Bersani canta l’Inno ai cittadini
e j’arisponde Sirvio ripittato
“tu canta che tr’ npo’ te ciò fregato”

Fior de Bocconi
dice che pure Monti l’ha votato
e l’italiano: “Adesso che l’hai detto
dicce pure chi è che te c’ha mannato!”

Fiore d’Italia
‘na volta sventolavi er tricolore
adesso sventolamo Silvio e Monti
e se stamo a magna ‘l grasso del core.

Fior de Sinistra
sei diventato uguale al centro destra
quanno annamo a votà metto l’occhiali
li guardo tutti e me parono uguali.

domenica 13 gennaio 2013

Teresa la vispa, è pronta la lista


di Mariaserena Peterlin


E la Cancellieri 
avea tra l'erbetta
al volo sorpresa
la lista sospetta

E tutta giuliva
un po' si scherniva
ma poi rispondeva
"qualcun se l'è presa...

ma non vi fa male!
E che ve ne cale?
Io veglio e controllo
e vo' al protocollo"

Ghignava incazzato
il grillo ingrassato
"Sta attenta ministro
il fatto è sinistro!"

"Sinistro o di destra?
E' stessa minestra"
Rispose in sua vece
il monti sagace.

E questa è la storia...
ad amara memoria...






Fratelli d'Italia
l'Italia sta fresca
col logo ed un nome
e si va alla minestra

Cos'è questa storia ?
Chi vuol la poltrona
arriva qui a Roma
e la lista portò.

Si strinsero a morte
son pronti alla corte
si misero in fila
col logo ed il nom

Tra Grillo e le stelle
le Ingroia son belle
e la Cancellieri
il pugno mostrò!

martedì 8 gennaio 2013

Fallisce la Richard Ginori: piatti rotti e i cocci della memoria


di Anna Lombroso

Anche se veniva tramandato di madre in figlia non c’era lista di nozze che non annoverasse quel bel servizio per gli sposi, completo, con le raviere, le tazze per il consommé, le mezzelune per l’insalata, le sontuose e capaci terrine e certe scodelline di incerto impiego, che però non dovevano mancare in una casa come si deve. Oculate, le suocere raccomandavano di “stare sul classico”, intanto dotarsi dell’Antico Ginori con tutta quella teoria di plissé che correva sull’orlo, così che se uno si rompe lo si ricompra, che Ginori non finisce mai.

Ma le promesse spose, in quei grandi felpati negozi, dove servizievoli direttori erano pronti a consigliare per il meglio con voci soavi e ragionevoli, quando percorrevano quei soffici tappeti, quando si fermavano a ammirare quei tavoli da esposizione con la mise en place, come facevano a resistere a quelle cineserie o a quelle turcherie, a quei “candori” così sottili da virare sull’azzurro trasparente, come facevano a non farsi incantare dall’opulenza massiccia di certi fregi imperiali? E il direttore pronto a dire, ma è giusto, perché non concedersi un capriccio, che poi è un investimento e da una tavola ben allestita con eleganza e ricchezza vengono altra ricchezza e prestigio.

Dietro certi muri alti e severi, quel prestigio si conservava e trasmetteva, dentro grandi armadi chiusi a chiave e si accumulava ad altre ricchezze. In case più vive, in famiglie più numerose e spericolate, dopo qualche inizio all’insegna della tutela, quando il servizio buono si metteva in tavola solo alle feste comandate, via via invece le pile alte si impoverivano, si scivolava in una dègringolade inarrestabile verso lo scompagnato e alla fine nella vetrinetta restava la salsiera, qualche tazzina da caffè, in memoria di passati splendori.

Splendori passati e finiti, come quella vecchia fabbrica, la Manifattura di Doccia, fondata nel 1735 da un bizzarro marchese Ginori appassionato di caccia e vini, che si dice avesse dato origine alla piccola industria perché voleva dei piatti solo suoi, esclusivi, disegnati da lui per i suoi banchetti, in quella campagna allora pingue e armoniosa nei pressi di Sesto Fiorentino.
Un’azienda artigianale che poi si fonde col gruppo industriale dell’intraprendente famiglia Richard nel 1896 e diventa un piccolo impero del gusto e della tradizione italiana, alla cui leggenda contribuiscono disegnatori e artisti, creativi e artigiani sofisticati e visionari. Così, come succede per realtà così esemplari, anche questa fabbrica così “fragile” e forte suscita appetiti e passa per mani non sempre pure, Sindona, Liquigas, Pozzi, Bormioli.
E ieri, infine, la decisione dei giudici fiorentini: la Richard Ginori è stata dichiarata fallita, tra le lacrime e le imprecazioni dei 314 operai cassintegrati che avevano sperato nel successo di una cordata, quella composta da Lenox e Apulum, pronta a rilevare l'azienda e farla ripartire. I dipendenti sospettano: “la decisione del tribunale è un fulmine che induce a pensare che dietro questo fallimento ci siano dei giochi particolari", se è stato respinto il concordato che si fondava sull'affitto e la successiva vendita a Lenox-Apulum e sulla cessione dei Musei della Richard Ginori allo Stato che avrebbe permesso alla società di ricavare 23 milioni, con i quali compensare un debito tributario di circa 16.
Non si sa quali siano questi giochi, non si sa perché, unico, il creditore privilegiato non abbia ritirato l’istanza di fallimento, a suo stesso discapito, non si sa se la controproposta della piemontese Sambonet sia più vantaggiosa e abbia qualche chance, si capisce solo che è come se un patrimonio di famiglia, un gioiello di casa, una presenza familiare nel ritratto della nazione e nella sua autobiografia, un bene al quale hanno contribuito dinastie operaie qualificate e geni dell’arte applicata, si fosse spaccato come si rompe un piatto, con il rumore secco, sorprendente e crudele dell’irreparabilità.

Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse: al primo posto non possono che esservi i beni comuni materiali naturali: terra, acqua, aria, energia. Ma bisogna cominciare a comprendere anche quelli che “fanno” l’identità storica di un Paese e di un popolo: luoghi, paesaggi, monumenti, quelli che oggi vengono considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile, alienandoli e svendendoli per fare cassa, ma anche perché la mercificazione possa permeare e intridere tutte le relazioni tra individui, persone e natura, uomini e conoscenza. In modo che si sviluppi quel processo pensato per massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile dagli esseri umani, dalla natura, dal pianeta, dal sapere, dall’informazione.
Allora forse è il momento di cominciare a pensare in termini di “bene comune” che non è una declinazione al singolare ma un approccio più completo e ideale che riporta all’interesse di tutti, alla sovranità indivisa su un patrimonio che si è ricevuto e si trasmette nella sua integrità arricchita dall’esperienza di una generazione e che passa all’altra come un messaggio di civiltà e umanità.

E di tutto questo fanno parte le fabbriche, quelle di auto come quelle che da 200 anni producono oggetti entrati nelle storie familiari di tutti, fanno parte il lavoro, la fatica di chi ha creato e costruito, girato torni e alimentato i forni e il loro caldo e il loro freddo, con le loro capacità e i loro talenti,quel loro tornare a casa la sera e mangiare una minestra in un piatto di ceramica un po’ sbeccato e bere dal fiasco.
Ieri sera aprendo il grande armadio antico, lucido per via di quella cera profumata ma anche perché la sera spegnendo le luci prima di andare a letto ci passo le dita e lo accarezzo perché è un pezzo di casa, di care memorie, ecco, ieri aprendo le grandi ante me li sono guardati quei piatti ben allineati come un esercito di ospitalità e accoglienza, di feste e di stare intorno a un tavolo parlando piano in giorni tristi, quelli candidi, leggeri e quasi trasparenti come conchiglie o quelli appena offuscati dalla patina degli anni, con quel bordo trionfale blu e oro, le grandi zuppiere nelle quali hanno nuotato succulenti tortellini tra le gocce goduriose del brodo, i lunghi piatti ovali dove si impigrivano pesci grigi e rosei ammantati di maionese, o l’alzatina dei marrons glacè.

Aprendo l’armadio, guardando i miei piatti sui quali vorrò per sempre mangiare con l’uomo che amo, con le mie bambine cui andranno un giorno, magari meno numerosi, ma tanto Ginori ci sarà sempre, insieme ai miei amici, ho pensato alla mia fortuna di aver conservato oggetti che parlano con le voci del passato, le risate, i no e i si, i non ho voglia e ho fame, quelle conversazioni come una musica felice o malinconica del passato, con i suoni di quella fabbrica e del lavoro di tanti, le loro lotte, la loro fatica per darci quella domestica antica bellezza. No, non si rompe la nostra storia come un piatto, perché la felicità che ci spetta non è solo pane, ma bellezza della memoria e del futuro.