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giovedì 29 settembre 2011

Venezia, ruggiti di libertà


di miss Apple

Anche il leone di Venezia porta il bavaglio, quello che il governo vorrebbe mettere all'Italia intera: il comune ha aderito alle iniziative che stanno nascendo dovunque contro il decreto "ammazza blog" e così ha pensato di tappare simbolicamente la bocca del leone che per molti secoli ha portato il libro dell'evangelista Marco. Un'immagine che riassume benissimo quella di un'Italia dove la cultura è sostituita dalla censura e ogni moralità dalla corruzione.
Ma non è l'unica immagine nuova che presenta oggi Venezia. La gente è stanca, il popolo si sta risvegliando, la crisi c’è altroché, non è vero che tutto va ben, madama la signora. come diceva contento, accanto al suo Giulio, l’uomo di Arcore due mesi fa: “la crisi è passata, l’italia è stata solo sfiorata, siamo in ripresa”
Ripresa un per de pifferi. Siamo in piena crisi, indebitati più di chi gioca i risparmi al lotto, altro che.
E allora la gente brontola, la gente si ribella. non ci sono solo le bionde finte o le vecie bauscie rosse - di capelli- a parlar bene di Silvio. Eh no! Stamattina Venezia s’è risvegliata con il leone imbavagliato, ma anche con una bandiera sul ponte della libertà, non la bandiera bianca della resa agli austriaci, no. Una, due, tante bandiere rosse a gridare all’attacco! A gridare, no, non ci toccate il posto di lavoro.
Duecento operai dell’Eni in cassa integrazione, da novembre, 200 famiglie senza futuro, assieme a tante altre in giro per l’italia.
L’Eni non ha intenzione di continuare con l’attività a porto marghera. l’impianto è vecchio, non c’è progetto di recupero. Vero che Porto Marghera, è un serio pericolo, vero che c’è un’altissima concentrazione di agenti inquinanti che provengono da li. E che c’è un progetto di riconversione: pare un porto megagalattico per portare sempre più turisti a Venezia e mandar così via i veneziani dalla loro città e trasferire così l’inquinamento dell' Eni alle navi da crociera (fesso chi pensa che a Venezia non ci sia inquinamento, sette navi al giorno in bacino san marco sono come 20 km di tangenziale).
Sicchè ho avuto un sussulto stamattina, la mia collega mi ha chiamata alle sette: arrivo in ritardo, non so a che ora, gli operai hanno bloccato il ponte e non si passa. Scendi! Vai con gli operai, protesta anche tu, solidarietà ai lavoratori, solidarietà a chi cerca la libertà.
E' il 29 settembre, l’autunno è davvero caldo.
E auguri Bersani, a te gli auguri li faccio, va.

mercoledì 28 settembre 2011

Condom...inium di genere


di Anna Lombroso

In giorni nei quali i vizi privati diventano pubblici vizi, ostentati con disinvolta leggerezza, nei quali i potenti si esibiscono con soddisfatto compiacimento in bravate sessuali, prevaricazioni omofobe e razziste, nei quali si fa esercizio quotidiano di un tracotante narcisismo, e sembra di vivere in un cinepanettone con barcon boldi e de sica, pur più contenuto nelle spese , ecco in questi giorni il coming out di che fa professione di civiltà e buona educazione è lodevole e può suscitare un certo compiacimento. In realtà la buona educazione come il “buon cuore” dovrebbe essere vissuta come una componente introiettata dell’indole e del comportamento, senza che la sinistra - e gli altri - siano tenuti a sapere cosa fare la destra (e adesso non sorridete della fine delle ideologie). L’”etichetta” nel tempo diventa il manifestarsi e il testimoniare, nella quotidianità, dei processi di civilizzazione, quando quello che veniva compiuto apertamente e colpiva sensibilità e vista degli altri, viene trasferito dietro le quinte. Ed era nelle cucine e non più a tavola e in pubblico, che si sventravano animali si tirava il collo ai polli e per traslato si consumava ogni ingiuria in luoghi deputati e negli arcana imperii.

Sarà quindi perché nel generale regresso il processo di civilizzazione si è fermato anzi torna indietro come i gamberi, che una letterina a babbo natale di “disertori del patriarcato” suscita con un certo ritardo un inspiegabile entusiasmo tra le signore della rete. Non entro nel campo delle percezioni: lo stile è quello un po’ viscido, che di solito si smaschera da sé, degli uomini che si autoproclamano “femministi” e che ricordano quegli antisemiti che dicono: razzista io? Ma se i miei migliori amici sono ebrei!, un tono untuoso, ipocrita e accattivante, infine accondiscendente, inteso, spesso, all’acchiappo più che all’autocritica. Ma si sa, viviamo tempi così bui che tocca accontentarsi, almeno sul versante stilistico.

Ma cascare nel trabocchetto dei contenuti, eh no questo è imperdonabile. Allora i precetti destinati a piacere a Lina Sotis più che a Luce Irigaray recitano l’invito reiterato e si spera anche il personale impegno a prendersi cura di se stessi e del proprio corpo senza demandare la responsabilità della nostra cura ad altre/i. Ad assumersi la responsabilità di mantenere e preservare le relazioni sociali: inviare biglietti di auguri, acquistare i regali per i nipoti, ricordare i compleanni, o anche solo organizzare cene per stare in compagnia. A ascoltare le donne, senza interrompere, senza smentire immediatamente, senza criticare o deridere solo perché sono donne. A fare attenzione a quanto si dà peso alle opinioni, alla parola ed alla presenza di altre soggettività: la mancata partecipazione di donne, trans e persone di diverse provenienze e/o vissuti ci vincola al paradigma patriarcale, eteronormativo e razzista. A imparare anche i gesti e le attività che sono di solito delegate sempre e solo alle donne. Ad eliminare le parole misogine e sessiste dal vocabolario – e dal proprio dialogo interiore. Ad essere sempre forniti di profilattico. A evitare qualsiasi attività sessuale che oggettivizza, sfrutta, ferisce o umilia le donne. A scegliere di avere rapporti sessuali esclusivamente con persone che siano consapevoli e consenzienti. Ciò significa che non siano ubriache, confuse, o impaurite. A risolvere eventuali conflitti in modo non violento, senza abusi, senza ritorsioni o vendette e senza coinvolgere chi non c’entra – soprattutto se si tratta delle figlie e dei figli. E infine, si legge: Troviamo un altro uomo da amare, in qualunque modo. Amico, padre, collega: proviamo a sentire, anche per scherzo, anche in una battuta, il rumore della parola “amore” detta a un altro uomo: facciamola uscire fuori e vediamo che effetto fa e mettiamoci alla prova, in questa come in altre situazioni.

Lo confesso per un po’ ho pensato che si trattasse di satira in rete, di una innocente presa in giro di Spinoza.it. Sostenuta e favorita da donne disincantate e spiritose. Quell’invito a girare sempre pronti ben equipaggiati di condom, anzi – ho omesso la citazione – la sollecitazione velata a indossarlo ancora prima di un ipotetico incontro, così per star più tranquilli, la raccomandazione a non infilare il calzino blu insieme alle lenzuola bianche nel carico della lavatrice, l’esortazione a fare largo impiego della parola amore fuori da paradigmi “etero normativi” mica pizza e fichi, e magari anche tre metri sopra il cielo, mi sembravano frutto di una irresistibile esercitazione di qualche incantevole spacconcello. E tutto sommato mi auguro ancora sia così.

Mentre mi dolgo che abbia incontrato tanta approvazione e soprattutto di genere. A cominciare proprio dal preservativo, perché mi pare che avessimo unanimemente maturato e condiviso la convinzione che le donne non devono delegare ad altri sicurezza, salute e rischio personale, senza fare una questione di principio su chi deve custodirne le “garanzie”.
E che proprio allo stesso modo, a proposito di scelte responsabili e libere, avessimo deciso – donne e uomini, insomma, persone – di non permettere a nessuno di interromperci, darci sulla voce, non tenerci in considerazione. Ma qui esuliamo dal decalogo e entriamo nella materia di quell’esplicito masochismo che se dei ceffi di quel genere li evitiamo in salotto e a letto, li subiamo invece in parlamento e al governo.
È che c’entra poco la fortuna, della quale peraltro sono una fan corrisposta, gli incontri non avvengono, non succedono, ce li “scegliamo, scegliamo quindi di essere oggetti e non anche soggetti d’amore, di tradimenti, di slealtà, di affetto, di emozioni, di solidarietà. Se abbiamo bisogno di un decalogo per sapere che dobbiamo evitare Andy Capp, ma anche La Vitola, temo che non abbiamo saputo esercitare nemmeno il quoziente minimo di autodeterminazione se subiamo di essere vittime per scelta. Perché uomini e donne lo sono inevitabilmente vittime, dell’iniquità, della violenza, della sopraffazione, della paura, ma è imperdonabile preferire chi ci condanna ad esserlo come per un destino contro il quale non si può combattere. Donne e uomini.

Forse tocca rispolverare l’educazione civica tanto irrisa: quello che serve è una liberazione dall’inciviltà, dall’ignoranza, dall’arroganza, dalla prevaricazione su chi è “altro”, donne, vecchi, stranieri, che comprende ovviamente anche una emancipazione culturale dal bigottismo e dal pregiudizio. Per essere davvero, donne e uomini, felicemente e pienamente persone nelle differenze.

lunedì 26 settembre 2011

"Ti piace il Papa Asino?"

di Alberto Capece Minutolo

Il Papa tra il presidente della Repubblica federale Wulff e
la First Lady, Bettina allo Schloss Bellevue 
In Germania non fa ancora freddo, ma per il Papa il viaggio nella sua patria è stato gelido. Poca gente alle cerimonie, contestazioni da ogni parte, una gerarchia disorientata, giornali scatenati: dallo Spiegel che chiama un corposo fascicolo di inchiesta sulla chiesa cattolica  e sulla visita del pontefice "Der Fremde", Lo Straniero, alla Die Welt che nell'occasione prepara un fondo costruito con gli scritti di Martin Lutero e titolato con una celebre frase di Lutero stesso, Wie gefällt dir das, Papstesel?"Ti piace il Papa Asino?" Per continuare con la Bild che presenta una inchiesta sul disagio dei fedeli e con Enzensberger che mette il pontefice nella schiera dei potenti che vanno in giro per il mondo circondati dagli apparati di sicurezza, senza però entrare a contatto con la realtà.

Ma i giornali non hanno resistito al confronto tra le
scarpe papali e quelle di Bettina
Tutto questo non galleggia sul nulla, ma sull'effetto straordinariamente negativo e paradossale che il papa tedesco ha avuto in Germania: il 43% in meno dei battesimi, il 62% in meno delle vocazioni, il 58% in meno dei matrimoni  e un calo delle presenze in chiesa del 42,5%: tutti dati riportati dallo Speigel, ma elaborati dalla congregazione episcopale tedesca. Anche al netto degli scandali sui preti pedofili che qui - dove il Vaticano non gode dello stesso potere che in Italia - hanno investito direttamente il Papa visto che proprio lui è stato per 25 anni a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede che doveva appunto sorvegliare su questi fatti e che ha consigliato il silenzio nelle linee guida elaborate nell'epistola De delictis gravioribus, è difficile spiegare questa precipitosa caduta di carisma e di credibilità.

Non c'è dubbio che l'influsso maggiore l'abbia avuto il conservatorismo dottrinale, la chiusura pressoché totale  rispetto alla società, il rifugio dentro una tradizione che non si traduce in spiritualità, ma nel suo contrario, nel cinismo delle convenienze e anche degli affari: il papa ormai dall' 81 in Vaticano, appare sempre meno pastore e sempre più uomo di potere, sempre più appartenente alla "Babilonia" romana, piuttosto che alla scrittura.La circostanza che sia tedesco risulta un aggravante, una specie di tradimento: perché fino a che il Pontifex era italiano oppure appartene alla chiesa dell'Est, come Woityla, ci si poteva aspettare un missione più politica o una corrività nei confronti dei costumi curiali, ma dal Papa tedesco ci si attendeva altro che discorsi di contrizione, spesso rimasti sula carta, negazione della società civile e ritorno al medioevo dell'omofobia o della scarsa considerazione delle donne.

Ecco il senso che ha l'articolo costruito con le frasi di Lutero e il fatto che uno dei rarissimi papi tedeschi sia identificato come più straniero degli altri. Forse non è un caso che proprio durante i quattro giorni di viaggio di Ratzinger nella sua terra di origine, siano cominciate a circolare da noi voci su possibili dimissioni nella primavera prossima, al compimento degli 85 anni. E' stato lo stesso pontefice a ipotizzare che un papa fisicamente e mentalmente non più in grado di occuparsi del suo ufficio, possa anche fare il gran rifiuto. Ma era una tesi generale non riferita a se stesso. Il fatto che questi mormorii circolino in Vaticano quasi in contemporanea con le magrissime folle di questo viaggio segnala che anche le gerarchie sprofondate da trent''anni nella gestione di fondi e di potere, cominciano ad avvertire gli scricchiolii. Tanto più che essi si fanno udire anche nella piazzaforte italiana, tenuta saldamente, ma a costi altissimi: quella di ridurre il messaggio a semplice marchio dogmatico buono per la raccolta fondi .
Certo, se fosse questo il caso, dovrebbero esserci dimissioni di massa: non basta cambiare un papa senza toccare i complici di una "restaurazione" rivelatasi fallimentare.

giovedì 22 settembre 2011

Alla ricerca degli appelli perduti


di Anna Lombroso


Li scrivono li leggono agli amici, magari al cellulare con l’ombrello che si rovescia col vento, raccolgono le firme li mandano ai giornali e non dite che non fanno opposizione, che non esercitano critica. Perché a volte quella firma in calce comporta qualche rischio impone qualche ritrattazione. In tempi difficili è un impegno quotidiano accelerato dare forma all’appello c’è sempre da difendere la libertà, smascherare bugiardi, fustigare conformismi, accidenti. E anche governare l’eccesso di consenso, perché a troppi piace vedere pubblicato il proprio nome insieme a eco-baricco-errideluca-mauro- spinelli-urbinati- bonomi- teodori-hack-villari, in fondo sono quei trenta secondi di celebrità che non sarebbe giusto negare a nessuno.

Fin da “né con lo stato né con le br” passando per altari e ludibrio, per ostensioni e sostegno, da quello a Battisti in gita a quello della magna charta pro Gelmini, dal premio nobel cinese, alle sanzioni per i pompelmi, da salviamo sakineh a abbattiamo i governi canaglia ma anche da quello per la legittima luminosità delle stelle a quello per proibire i botti di capodanno che turbano il migliore amico dell’uomo.
E poi ci sono gli appelli sconcertanti per “segmenti di diritti”, donne contro il consumo dei corpi, ma solo femminili per carità che gli operai di mirafiori mica sono in topless sulle copertine. E maschi per la Costituzione, come se democrazia e libertà non fossero già fatti ampiamente a fettine. E comunque la cifra unificante è che tutti non ne possono più!

Ora e so di non essere sola, mi chiedo dove sia collocato il cestino degli “appelli stracci” dopo la mezz’ora di notorietà , dove finisce lo sdegno a orologeria, gli spot della disapprovazione che interrompono l’emozione dell’appiattimento, della comodità.
Lo strumento sarà arcaico ma invece finalità e effetti sono quanto mai moderni: forme di impegno e militanza istantanei come il nescafè che come quello innervosiscono poco, come l’usa e getta – nel cestino mediatico – volubili ed effimeri come il mi piace e il copianicolla su Facebook. Con una differenza, che quelli rappresentano e testimoniano del club esclusivo della “cittadinanza”, una casta trasversale alle caste che per questa appartenenza rischia sempre di rivelarsi embedded, influenzabile dal privilegio. E nella rete invece verbalizzano sia pure in modo primitivo gli “altri”, una moltitudine che ha come faccia l’immaginetta di FB e poca voce in capitolo ma che se trova forme di aggregazione e pressione più mature, potrebbe avere una potenza formidabile.

È che nella totale latitanza delle èlite la figura dell’intellettuale engagè,impegnato, dell’uomo di cultura che rischia la faccia e testimonia dissenso con la sua produzione e la sua azione quotidiana, ha assunto i connotati ingenui e antichi di una figurina del passato tra Cafè de Lilas e comparsate in manifestazioni “a fianco di…”. Non è colpa loro, non è che non c’è più Sartre e Chomsky invecchiando tende a delirare, non è solo che Deleuze e Guattari sono troppo dimenticati. È che oggi trionfa quella forma di kitsch che prevede l‘uso improprio delle intelligenze dissipate tra regie da oscar e spot, tra semantica e gialli storici costruiti al pc, tra tentazioni di globalizzazione e ammirazione per il localismo, tra diniego del consumismo e cedevolezza all’essere consumati, amati, blanditi, soprattutto profumatamente pagati.

Non ci sono più i “maestri” a diffondere verità generali per lo più scomode, il pensatore impegnato si è liquefatto nella gelatina della spettacolarizzazione e dei suoi teatrini, semmai ci sono “tecnici” sempre meno autorevoli col loro gergo sempre più esclusivo che invece di accendere coscienze le spengono in una generale assuefazione a realtà raccontate, che si tratti di nucleare, di finanza, di “mondo”.
E il lavoro intellettuale si è proletarizzato a cominciare dall’università, dove il professore è stato declassato e magari non è proprio un danno, e dalla scuola dove l’insegnante vive al limite della sussistenza e questo invece si è certamente effetto deleterio. In un mondo stivato di messaggi, dove scivolano via fiumi di parole, slogan e immagini in un fluire irresistibile e poderoso, dove il tasso di comunicazione si è alzato, ma quello di informazione invece è ancora limitato e dedicato a pochi, dove dimensione pubblica e pubblicità si sono avviluppati in un nodo perverso, non c’è più nessuno di sufficientemente credibile e autorevole per mostrare la rotta.

Una volta i poveri erano artatamente tenuti nell’ignoranza. Ora possiamo con armi impari ma sufficientemente affilate combattere contro la manipolazione e la disinformazione. E guardarci dai maestri che per lo più sono cattivi, se sono abilitati solo all’invettiva, all’esibizione, alla comparsata.
Tanti anni fa uno storico, E.P.Thompson, autore di un libro del quale dovremmo riprendere il titolo come slogan: La tromba suonerà, ne scrisse un altro che si chiamava “Uscire dall’apatia” che invitava al risveglio, che non c’è stato, se guardiamo al profondo sonno delle coscienze e al letargo della sinistra e di una intellighenzia che mai nemmeno sotto il fascismo è stata così arrendevole dei confronti dello stile di vita, del pensiero dominante e della lusinga di visibilità e quattrini. Che annacqua il veleno in cui riposa con qualche appello che addomestica latenti sensi di colpa e li fa sentire insieme tra affini nella sottoscrizione di parole cui non seguono azioni.

Non so se aveva ragione quello slogan: diffidate di chi ha più di trent’anni, non credo sia quella la soluzione, credo dovremmo diffidare di chi ha più di un tot in banca di chi si è fatto intruppare in vario modo nelle compagini di un conformismo egoistico e consumistico, di chi si è castrato da solo per accomodarsi dell’apatia opulenta. Chi non è così per inclinazione, indole o necessità può esser obbligato e contento di uscire dall’apatia, di svuotarli quei cestini codardi e riprendere il coraggio difficile ma appassionato del futuro.

mercoledì 21 settembre 2011

Come farsi in casa il miracolo di S. Gennaro

di Alberto Capece Minutolo

Il miracolo di S. Gennaro è un ottimo affare per la chiesa napoletana e soprattutto per quella parte di città che si aggrappa alle "tradizioni" come garanzia di conservazione delle strutture di potere lecite e illecite. Molte persone cascano in questo tranello di scambiare la cultura e l'identità con ritualità e usanze ormai ambigue e fuori dal tempo: ma non c'è da meravigliarsi in un tempo in cui i termini di valore e tradizione hano perso il loro senso e si garantiscono a vicenda in una viziosa e inconsistente circolarità.
Comunque sia la liquefazione del "sangue" di S. Gennaro e la sua successiva ricondensazione, è stato un ambiguo prodigio che per secoli (le prime cronache risalgono al 1389) ha alimentato la leggenda sia del santo che suo miracolo, non senza tuttavia corposi sospetti tanto che la Chiesa voleva togliere il santo dal calendario  e non ha mai ufficializzato la natura soprannaturale dell'evento. Ma rimaneva la difficoltà di spiegare ciò che avveniva nell'ampolla fino a che in tempi relativamente recenti non si sono scoperte le qualità tissotropiche di parecchie sostanze o miscugli, spesso in forma di gel: la proprietà appunto di rimanere solidi se a riposo, ma di fluidificarsi se sottoposti a scosse vibrazioni. All'inizio si trattava di materiali tecnologici e quindi inadatti a spiegare preparazioni medioevali, fino a che non si scoprì che anche composti di uso comune presentano proprietà tissotropiche più o meno evidenti: una di queste è il ketchup che è molto denso se lasciato indisturbato, ma diventa più fluido e scorrevole se agitato.

Ma ci voleva altro e alla fine nel '91 i chimici Garlaschelli, Ramacci e Della Sala, pubblicarono su Nature un ormai celebre spiegazione del miracolo, usando sostanze di facile reperibilità generale o della zona napoletana. e così simile al sangue da poter essere indicate come la composizione vera del sangue del santo. Tutti noi possiamo crearci in casa del sangue di S. Gennaro e magari esporlo in graziose teche da agitare ritualmente. Deciderete poi se è il caso di chiedere un obolo.

Molisite
La difficoltà maggiore è quella di reperire della molisite, un cloruro ferrico che si trova in grande abbondanza alle solfatare di Pozzuoli o sulle falde vesuvio. Di solito si trova sotto forma di film brunastro molto spesso come nella foto a destra e attaccato ai più diversi materiali. Basta grattare e procurarsene 25 grammi. E' la cosa più complicata. Adesso non dovete fare altro che rendere più fine possibile la molisite servendovi di un mortaio e una volta terminato il lavoro non resta che scioglierla di un 100 millilitri di acqua (un bicchiere in pratica), meglio se distillata come quella per i ferri a vapore. A questo punto avete quasi terminato, non vi resta che aggiungere 10 grammi di carbonato di calcio. Ed è semplicissimo: basta prendere un guscio e mezzo di uovo, usare di nuovo il mortaio o il robot da cucina per ottenere una polvere che va aggiunta molto lentamente e mescolando al composto.
E' bene usare un recipiente largo e piatto perché dovete aspettare che una parte (poco meno della metà) di acqua evapori. E' anche possibile riscaldare fino a 40 gradi il nostro sangue miracoloso artificiale per facilitare l'evaporazione. Ma è consigliabile lasciare che la cosa avvenga a temperatura ambiente. Alla fine non vi resta che aggiungere 1,7 grammi di sale da cucina per ottenere un composto bello corposo, lucido, gelificato, rosso scuro, ma se lo muovete un po' ecco che diventa fluido.

Naturalmente occorre inespertirsi, eliminare il più possibile scorie di altri materiali, capire quanta acqua fare evaporare per ottenere un aspetto migliore, pesare i gusci d'uovo per essere più precisi con il carbonato di calcio: insomma anche i miracoli ben fatti richiedono un po' di sudore.
Ma alla fine la fatica e l'impegno sono quelli messi nella preparazione di una ricetta in cui l'amalgama dei sapori dev'essere rigoroso: che ne so un sartù di riso o un ragù napoletano particolarmente "preciso". Ma la soddisfazione è molto più ampia: con un piatto perfetto mangiano pochi ospiti, col sangue di S.Gennaro ci si può mangiare per sei secoli.

martedì 20 settembre 2011

Porta Pia: quella breccia tutta da fare


di Anna Lombroso

I bersaglieri entrano a Roma da Porta Pia
Una chiesa complice e omertosa tace sul mostruoso sistema vigente di sfruttamento corruzione e amoralità ma invece grida al miracolo per la resistente permanenza di una felice e incoraggiante superstizione che fa sciogliere il sangue ma purtroppo non le Camere.
Oggi 20 settembre ci fa sorridere amaramente wikipedia che alla voce Breccia di Porta Pia recita: la presa di Roma (20 settembre 1870), nota anche come Breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, decretando la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei Papi.

Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, un gran rompiscatole molto puntiglioso si domandò quali fossero state le cause che cambiarono il carattere degli italiani dopo la caduta delle gloriose repubbliche e si rispose con un elenco di ventidue “verità” concernenti il ruolo invadente della Chiesa. La morale cattolica per lui cresciuto nella Ginevra calvinista, era “cagione di corrutela e superstizione”, si un rompiscatole magari, ma lucido e anche preveggente, perché è indubitabile il contributo alla poca coesione identitaria che affligge questo stivale troppo lungo abbia contribuito anche l’ingerenza abnorme esercitata dal clericalismo.
Per molti anni proprio come lui e come tanti pensatori risorgimentali ci siamo lagnati del ritardo della chiesa rispetto alla modernità, all’ingresso nel comune sentire e pensare di criteri più liberi e laici rispetto alle relazioni, alle inclinazioni, ai costumi. Abbiamo denunciato l’abuso continuamente consumato di voler imporre principi morali cari all’organizzazione ecclesiastica, più che al credo di una comunità di fedeli, come etica pubblica obbligatoria per tutti i cittadini. E al tempo stesso abbiamo puntato il dito contro il silenzio delle gerarchie ecclesiastiche non solo sulle abitudini amorali e criminali di un ceto politico ma anche sullo scandalo di molti suoi appartenenti.

Oggi 20 settembre mi ripeto nel dire che vorrei che fossimo in condizione di non accorgerci che la chiesa c’è. Vorrei che quella comunità di credenti - anche loro francamente un po’ troppo riservati e silenziosi rispetto a abusi, leggi razziste, sessismo, soprusi dei ricchi sui poverelli - fosse ben rappresentata nell’esercizio, congruo con le nostre leggi, della professione di fede e perfino di un ragionevole proselitismo, che si sentissero talmente cittadini da persuadere anche la struttura organizzativa a esserlo pagando le tasse e rispettando le regole e le leggi e magari a garantire insieme ai loro doveri e diritti anche i diritti insieme ai doveri dei laici. Ma libera chiesa in libero stato pare sia un motto che ormai si trova solo nel cruciverba della Settimana Enigmistica e immagino sia stato depennato risolutamente anche dai sussidiari.

Napoleone III si arrende a Bismarck; fu la guerra
franco -prussiana a permettere la conquista dello
Stato pontificio non più difeso dalle truppe francesi
Si ci ho pensato bene, alla possibilità che si veda molto nel razzolare bene facendo il suo dovere nel rappresentare e testimoniare il terra le leggi di Dio, con compassione, accoglienza, aiuto ai deboli, rispetto della dignità e fratellanza, cosa che comunque dovremmo fare tutti in quanto cittadini del mondo, preferisco proprio che predichi e agisca possibilmente bene nel suo contesto, lasciando a me laica la possibilità di fare, votare, scegliere, decidere, sbagliare, redimermi, pagare secondo le leggi del mio Paese e il dettato morale del mio senso di responsabilità. E che anche loro lo facciano, perché se non ho indulgenza per i compagni che sbagliano, non ne voglio avere per i preti che tolgono innocenza e sorriso agli innocenti ancorchè pentiti, che accantonano ricchezze levandole ai poveri, ancorchè pietosi, che vogliono comportamenti morali da noi, ammiccando alla trasgressione criminale dei potenti.

San Gennaro è passato, ma lo vogliamo farcelo da noi il miracolo di saper essere liberi da poteneze e prepotenze?

domenica 18 settembre 2011

Venezia, sul ponte sventola il tricolore (2)


I barbari xe andai


Dialogo di Anna Lombroso e miss Apple


Il tricolore campeggiava in molte calli veneziane
Cara Miss Apple, come si dice hai messo il dito nella piaga, i barbari sono barbari e i peggio sono quelli che imbarbariscono anche noi. Quei ceffi vestiti di verde sarebbero ridicoli se non avessero contribuito a rompere un “contratto sociale”, perseguendo un puro interesse egoistico facendo dissolvere regole, obblighi, doveri e diritti di convivenza. Hanno diffuso anche loro quella logica di massimizzazione del vantaggio personale in combinazione con il primato mercantile mette in atto una tendenza distruttiva, che non ha opposto resistenza etica e nemmeno razionale al profitto. Una volta perfino gli economisti dicevano che a un certo punto al mercato si doveva dire: fin qui andrai e non oltre. Si è oltrepassato il limite nei territori della socialità, proprio grazie a un esercizio del potere fatto di prevaricazione, aggressività, sopraffazione. Alimentando diffidenza, paura degli altri, sospetto. E da un punto di vista economico, la crescita mercantile e finanziaria abnorme ha prodotto scarsità naturale sociale e morale, intaccando il patrimonio e l’equilibrio ecologico i giacimenti di bellezza, come è appunto Venezia. Il pubblico interesse è stato sostituito da interessi populistici e elettoralistici, calavano le ricchezze di sapere e conoscenza, si tagliavano gli investimenti in cultura e istruzione, ma si metteva in scena la grande finzione di beni a disposizione di tutti, pronti a un rapido consumo usa e getta, o usa e sporca.
Il troppo e impropriamente abusato Keynes diceva che nei paesi più avanzati ciò che è necessario è una migliore distribuzione della ricchezza per coltivare liberamente le grazie della vita. Nel nostro mondo globalizzato è vero più che mai, dovremmo essere capaci di creare un modello aperto e equilibrato nelle risorse fisiche, nei bisogni, nel mondo simbolico, nell’intelligenza e la creatività, nei beni e nella morale. Invece come dici tu, questi profeti della chiusura e dell’esclusione, del rifiuto e della paura degli altri, dell’egemonia del denaro e del suo possesso, hanno un tale disinvolto disprezzo per i beni comuni e per le grazie della vita che le lasciano distruggere rovinosamente come Pompei abbandonandole a incuria, dissipato consumo, degrado. La ricetta non è nel recintarle. Non è nel farne un museo a cielo aperto. O una Disneyland. Sono città vive con gente che lavora pensa circola ride piange ama. No l’unico modo di salvare queste ricchezze per noi e per quelli che verranno è alimentare il pensiero, educarlo a chiedere bellezza e a voler soddisfare questo bisogno in un modo armonioso con gli altri, con l’ambiente, con il futuro. È una – forse la più civile – delle declinazioni dell’equità, che tutti siano messi in condizione di godere della bellezza. Ma si sa qua stiamo a parlare di bellezza e di equità e tu sei là nella città invasa dai barbari.

Pel di padania
Eh cara Anna i xe andai, sa. Finalmente i torna casa e qua ariva el marubio. Spero che il vento e la pioggia spazzino via tutto il fetore che ha lasciato qua Bossi con la sua truppa. Per quanto
a volte penso che magari ci sarà del buono tra i leghsiti, tra la base leghista. Non me par possibile ci sia tanta cattiveria, tanto odio per tutto ciò che non è padano? A ‘sto punto penso che no i magna gnaca el grana reggiano da tanto padani che i se sente, no me faria meravegia cara Anna..
Stamattina ho sentito tante cazzate: da Calderoli, che vuole fare il simpatico di fronte ai suoi elettori: ha tirato perfin fuori di nuovo le tasse e i calciatori. Torto non ne ha nel dire che le tasse devono esser pagate ed in egual misura, ma allora perchè hanno firmato quella manovra? Che paga sempre i poveri. E tutti applaudiva, ma ghe sarà stai dei poveri tra de lori, no? E Maroni: si è fatto bello davanti ai poliziotti che vigilavano sull’ordine pubblico. ma lo sa, Maroni che i suoi agenti arrivano direttamente dal sud? Molti uomini e donne del sud vanno nelle missioni di guerra, ops, di pace, lo sanno i leghisti, lo sa la loro base che sono quasi tutti terroni, vero? E lo sanno i leghisti che molti extracomunitari sono quelli che puliscono le loro case, accudiscono i loro vecchi e molte extracomunitarie accontentano i maschi -anche leghisti- con prestazioni sessuali che le loro mogli si rifiutano di concedere?
Grandi discorsi, dal vertice della lega, ma tanta fuffa. poca sostanza da Bossi. Eppure vedi intorno non sentivo nessun dire che non accetta lezioni di morale da chi, come lui, sta al governo con un trapanatore finale che usa le puttanelle in cambio di appalti e favori. O da chi sta al governo con chi ha permesso ad un beduino (così chiamano gli stranieri che lavorano per loro) dittatore di venire in campeggio a Roma e dar lezioni di islamismo mentre nel suo paese si perpetravano crimini contro chi la pensava in modo diverso. Eppure tutti zitti, come sta zitto lui, eh Bossi, zitto, ingoiano tutto come ingoia tutto lui, si accontentano di quelle solite robe che farfuglia: secessione, padania libera. Secessione, roma ladrona. Si accontentano di un’ invenzione, che prende spunto da una pianura, piatta come la loro testa che non ha voglia di robe belle e gustose come xe el grana. Come è ancora è l’Italia, col so’ bel tricolore come quelo de me amiga lucia, che indomita, ha sfidato tre ministri e un pochi de barbari in visita a venessia. Che la stava a vardar, la ghe ne ga viste pasar tante, passara’ anca questa. E intanto piove.

Venezia, sul ponte sventola il tricolore (1)



Dialogo di Anna Lombroso e miss Apple

Cara Miss Apple, sei in mezzo alla soldataglia del Po? Sai, Venezia coi barbari ha avuto sempre a che fare, tollerati con un certo aristocratico fastidio, blanditi come desiderabili partner commerciali, combattuti quando cannoneggiavano la basilica, odiati quando sparavano ai colombi in piazza. Lo sai, per liberarsi dai barbari sette ragazzi sono morti e hanno dedicato loro quella bella lunga riva di fronte a san giorgio, in questi giorni sfrontatamente usurpata dai più straccioni e cialtroni tra i barbari. Ieri lo dicevo ai miei amici romani, no gave’ da credar al ministro del disordine pubblico e dei respingimenti che ha schierato un pochi de poveri “fioli” a respingere gli antagonisti. Certo doveva fare un gesto simbolico a favore di suoi padroni, doveva far finta che a protestare fossero i soliti sospetti, centri sociali e professionisti della protesta. E che ci fosse solo la Lucia Massarotto a tirar su un tricolore logoro ma coraggioso, mentre il Bossi “roversa” il Po del Monviso dentro alla laguna.
Mia nonna saggiamente e irriverentemente disse a proposito di benedizioni indesiderate, un poca de acqua sporca non ga mai fato mal a nessun. Ma invece a tanti veneziani il contenuto di quella ridicola ampolla gli fa male, li urta come un’offesa e una slealtà. Sarà per via della spocchia della Serenissima che torna su come l’acqua alta e che fa dire anche dei milanesi, li xe de campagna. Ma ben venga il sussiego di chi ha imperato con potente tenacia sulla terra e sull’acqua, se ridicolizza e rifiuta la volgare provocazione di un ceto impolitico inetto razzista ignorante conservatore fino al misoneismo provinciale scontroso nei confronti di tutto il mondo e diffidente, in una città che ha rappresentato accoglienza, cosmopolitismo, apertura, cultura, bellezza, mecenatismo, coraggio di superare confini e di aprirne altri.
Hai visto, non c’è da credere al ministro, ieri in riva c’era mia cognata che firmando il referendum si è anche comprata una bandiera nuova e ieri se l’è portata in piazza, c’erano le sue amiche, ragazze attempate che ridendo chiamiamo le “maranteghe”, c’erano i professori di Ca’ Foscari e Architettura che non perdonano alla Lega l’ingiuria recata al sapere e all’istruzione, c’erano i pittori, i musicisti, gli artisti che pensano che la Lega sia un’offesa alla bellezza che una volta regnava in questa città e in tutto questo lungo strano stivale. C’erano ragazzi che della bandiera non gliene mai era importato un granchè, era un “oggetto” acquisito ma un bel po’ estraneo come certe poesie, il morbo infuria il pan ci manca..finchè non sono arrivati questi qua che sarebbero solo ridicoli se non li avessimo sottovalutati. C’erano i partigiani che sentivano quella presenza nella Riva dei Sette Martiri come un torto insolente che non si deve tollerare. È il ministro e la sua formazione politica informe e incivile che li ha resi antagonisti, e ne sono piuttosto fiera.

Si Anna, sarà anche così, ma intanto vorrei prima far un giro, andar a sentire cosa pensa la base leghista a proposito delle puttanelle di Arcore, cosa pensa la base leghista di una manovra che pesa come un macigno pure sulle loro buste paga o incassi mensili. Ecco, gli elicotteri che mi ronzano sulla testa! ma porca miseria perchè mi tocca questa solfa, ogni anno, il rito dell’ampolla, i me porta a Venessia l’aqua inquinada del po, inquinada da qualche maldestra industria che pensa solo ai profitti e non al resto del mondo. E vedo a sentir anche il Bossi, capirai, quanti ministri ci sono a Venezia? tre, quattro...che botta! A rivendicare che loro non vanno ai festini del trapanatore finale, questo gli fa -poco- onore…ma vorrei raccontarti di ieri, Anna. sai che il sabato è per me un giorno sacro, sacro per le spese e le ciacoe con gli amici a Rialto. E invece un delirio, un incubo, che è continuato pure nel pomeriggio: turisti, turisti, turisti, turisti, barbari, barbari e ancora barbari. In vaporetto, in calle, sul banco del pesce, sopra i pomodori, in vaporo, in riva. Arrivata a casa ho controllato pure sotto il letto, sia mai che, come l’ultimo dei giapponesi, ce ne fosse pure qualcuno là o qualche cinese venuto a salvare l’economia e a comprarse botteghe. .
E ho pensato che, chi come me, ama Venezia dovrebbe andare domani dal sindaco -oggi sarà di riposo, l’uomo- a consegnare chiavi di casa, carta d’identità e chiedere l’annullamento della cittadinanza veneziana. Io mi rifiuto di vedere Venezia così, un oggetto. Una terra invasa. Altro che attila e gli unni, questi nuovi barbari sono peggio: arrivano armati, ultimamente preferiscono arrivare in condomini galleggianti, ne arrivano sei, sette al giorno, come carrarmati in zona di guerra.
Ecco, così è Venezia, ad uso e consumo di chi spende, di chi sporca, di chi non ama questa città. Tu dici delle maranteghe, ma molti veneziani rimangono silenti, impassibili, accettano tutto questo perchè venessia vive col turismo, cio! bisognarà pur magnar, rassegnati, impotenti.
E assistono con la stessa rassegnazione anche allo spettacolo della Lega, a quello inscenato da Maroni, che fa scena bloccando un centinaio di studentelli, che voglio protestare contro la lega, contro le politiche di questo governo che pensa solo a proteggere i ricchi e puttanieri.
Basta far ciacole, adesso vado a missiarme tra i barbari vestii de verde con i copricapo da vichinghi, tanto brutti i resta, anca co i corni.

mercoledì 14 settembre 2011

Berlusconi a tavola


Di Alberto Capece Minutolo

Dei gusti culinari di Berlusconi sappiamo poco: a parte l'avversione per l'aglio che farebbe supporre anche quella per i paletti di legno, non ci sono che le evasive e brevi parole dei suoi commensali durante gli anni dell'avvento e del regno. A detta di tutti una cucina scialba di idee e di sapori, con scelta di vini mediocri e inappropriati. E così mentre attorno alla sua figura è nata una variopinta trattoria di incontri, patti, compromessi abboccamenti all'insegna della crostata e del risotto, proprio lui ,il Cavaliere attorno al quale tutto questo si svolgeva, è rimasto estraneo alle espressioni inconsce di bulimia del potere.
Certo non per mancanza di mezzi o di quella prorompente generosità che lo spinge ad aiutare tante famiglie e ragazze in difficoltà, ma evidentemente per mancanza di golosità, di attrazione verso il cibo, di appeal per i sapori: con lui i segreti legami tra cibo ed eros perdono di senso lasciando il posto a quello molto più  pretestuoso e sfacciatamente strumentale fra cene e sesso a pagamento.

Tutto questo potrebbe anche non attirare l'attenzione, ma è in realtà molto strano perché il cibo viene universalmente usato per soddisfare bisogni interni e personali oppure per produrre impressione sugli altri, mentre le mense di Silvio sembrano fatte apposta per non regalare piacere all'anfitrione, né a colpire gli altri: le paste dimesse, le cotolettine con patate, le capresi da bar, sia pure preparate da cuochi esperti, oltre che appassionati di talk show, sono la negazione stessa dello splendore delle mense come instrumentum regni. Sappiamo anche che il rapporto con il cibo esprime e definisce molti lati della personalità: come dice Leon Rappoport in un delizioso, ma rigoroso saggio del 2003, "Come mangiamo" le maniere di stare a tavola, i nostri gusti, la quantità di cibo assunto sono comportamenti espressivi collegabili direttamente a determinati tratti caratteriali. Il cibo richiama le radici dell’identità, orienta il senso dell’appartenenza, contribuisce a definire l’immagine di Sé; dentro al nostro piatto troviamo valori, idee, convinzioni, rappresentazioni che ci segnalano e segnalano agli altri chi siamo e chi sono gli altri; il cibo può costituire cioè un elemento di identificazione e di distinzione che struttura l’interpretazione di Sé e del mondo circostante.

Dunque le cene di Berlusconi cosa ci dicono di lui? Da quale capo possiamo cominciare a svolgere il gomitolo? Due caratteristiche ci possono mettere sulla strada. La prima è che a detta di chi ha avuto l'onere e l'onore di sedere alla sua tavola sostiene che al contrario degli altri piatti, i dolci sono di solito più curati e ricercati e questo forse può essere interpretato come un elemento che rimanda all'infanzia. L'altra è che i piatti serviti fanno tutti parte della cucina tradizionale, casalinga quasi e non si spingono mai a sondare novità o strade diverse. E questo fa parte di un atteggiamento di base: ci sono persone che manifestano curiosità, desiderio di conoscenza e ampia capacità di adattamento nel gustare alimenti non ancora sperimentati, altre manifestano invece diffidenza, allontanamento, fuga e ostinazione nel non accostarsi a cibi e cucine non conosciute. Alcune persone sono molto più spaventate quando sono costrette a separarsi, anche per poco, dalle loro abitudini. Il cibo e il modo di alimentarsi si riferiscono a teatri psico-affettivi che prevalgono sul gusto inteso come sapore e libertà sensoriale. Sono aspetti studiati dalla psicologia e persino dalla sociologia.

In più uno studio condotto qualche anno fa dall'istituto di Psicologia del'Università di Bologna ha rivelato che le persone più impaurite dalle novità e diversità alimentari sono quelle che hanno i gusti più vicini a quelli dei loro genitori e soprattutto a quello delle madri, mentre quelle culinariamente più avventurose sono maggiormente distanti dall'ambiente materno e familiare in genere.

Straordinariamente questo corrisponde alla politica berlusconiana: un collage immutabile di orientamenti, pregiudizi e discorsi di comodo della media borghesia del nord negli anni a cavallo della guerra, Un mondo che ha mai trovato una vera elaborazione, uno sviluppo originale, un ripensamento o una ricerca ma si è cristallizzato allo stesso modo nel quale le cene eleganti non si rinnovano mai nel tempo. La libertà, intesa come insofferenza delle regole e il rifiuto ossessivo di qualsiasi istanza realmente sociale sostituita con il consenso, l'ossessione persino ridicola di etichettare l'estraneo, il nemico come comunista, sono il correlativo oggettivo della cotoletta, come se fossero inscindibili i discorsi paterni da dirigente bancario del dopoguerra con il cibo che nel frattempo veniva consumato alla luce di quelle lampadine da 40 watt buone a creare le ombre più che la luce.

Si, ma come la mettiamo con il ruolo di anfitrione che deve dimostrare la sua potenza e la sua larghezza? Anche qui non è difficile: nel momento in cui il cibo diventa quasi ritualmente testimone di un appartenenza e di un mondo, la "regalità" assume i caratteri dell'imposizione: se mi sei amico e fedele devi non solo pensare come me, ma anche mangiare come me. Ritornando al dolce è evidente che in questo s'insinua un carattere ancora infantile che stenta a riconoscere gli "altri" se non come appendici di sé.
E a pensarci bene anche quella inesplicabile passione coltivata per L'elogio della follia" di Erasmo da Rotterdam trova una soluzione: perché la follia non è interpretata come una radicale diversità, ma semplicemente come avventura dell'affermazione personale: qualcosa che ha bisogno di portarsi dietro tutta l'arca di convinzioni, di abitudini e persino ricette come una sorta di protezione a una costruzione umana poco consistente.

Forse non c'era bisogno di questo excursus per dedurne che Berlusconi è una persona potenzialmente pericolosa avendo trasferito il senso morale e la stessa socialità dentro un complesso di abitudini e di movenze quasi autistiche. C'è in tutto questo come una sorta di anoressia che non riguarda la quantità degli alimenti, quanto una sana libertà sensoriale. Come se il cibo intenso e vario potesse essere un pericolo,una estrusione dal proprio mondo, l'inizio di una dipendenza. Un reprimersi morboso dunque che invece viene apparentemente riscattato nel sesso, praticato con grande variabilità di persone e circostanze: in questo l'anoressia sensoriale cambia di segno e lascia posto a una bulimia sconsiderata, che tuttavia non viene metabolizzata né emotivamente, né sentimentalmente in quanto gli "oggetti" sono in uso temporaneo e vengono "rigettati" dopo la doccia.

Insomma paradossalmente per Silvio è più facile mettere le mani addosso alla nipote di Moubarak che abbandonarsi a gustare il cous cous. Così come gli è stato facile mettere le mani addosso al Paese, illudendolo con qualche bustarella politica piuttosto che tentare di capirne e di secondarne le trasformazioni, cosa che del resto gli sarebbe stata impossibile.  Forse non siamo esattamente ciò che mangiamo, come sosteneva Fueuerbach e tuttavia così come per il bruco la foglia di gelso è l'infinito, così la cotoletta con patate o le tagliatelle ai funghi porcini che più porcini non si può, possono esser l'infinito culinario di un uomo minimo.

Piccola bibliografia con contorno

Bourdieu P. (1979), La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983.

Breen F.M., Plomin R. e Wardle J. (2006), Heritability of food preferences in young children, «Physiology and Behavior», 88, 4-5, pp. 443-447.

Müller K.E. (2003), Piccola etnologia del mangiare e del bere, Bologna, Il Mulino, 2005.

Rappoport L. (2003), Come mangiamo. Appetito, cultura e psicologia del cibo, Milano, Ponte alle Grazie.

Pani R. e Sagliaschi, S. (2006), Questionario sulle preferenze alimentari, questionario non pubblicato, Dipartimento di Psicologia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna.

Pani R. e Sagliaschi S. (2010), Psicologia del gusto e delle preferenze alimentari. Rigida ostinazione o possibile apertura al nuovo?, Torino, Utet.

domenica 11 settembre 2011

The end


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Spente le luci, calato il sipario, è finita questa 68esima mostra d’arte cinematografica di Venezia, un’edizione davvero di grande prestigio, bei film, almeno quelli che son riuscita a vedere tranne due due: Ruggine e Quando la notte.
Non ho visto tutti i film in concorso, quindi non posso esprimere un vero giudizio sui premi consegnati stasera, ma posso dire che Faust meritava il leone d’oro come il giovane Fassebender meritava la Coppa Volpi: la sua è stata un’interpretazione davvero coraggiosa per un tema molto delicato e difficile, mentre  Shame è uno dei film più belli che mi sia capitato di vedere in questi ultimi anni di mostra.
Anche faust è un bel film, immenso nel suo continuo conversare tra il bene ed il male, con un diavolo così insidioso.
Però vorrei ricordare altri film che avrebbero potuto vincere:
Polansky in versione Allen, un film ambientato a new york -città che il regista non potrà più vedere, pena l’arresto- e girato in interni, giusto perchè potesse lavorare.
Le idi di marzo, il film sulla politica sporca che pecca di una mancata autopsia, se fossi stata in giuria avrei proprio fatto notare questo, in Usa fanno le autopsie pure ai polli, forse questo è costato al film, mi sa.
Poi il film di friedkin, demenza pura in un’america post 11 settembre e quello della figlia di Mann, un bel poliziesco, che la distingue come figlia d’arte dall’italica figlia d’arte, la prima è brava l’altra pretenziosa.
In questa mostra posso dire di aver ritrovato del gusto nel cinema italiano, non nei film in concorso, ma nei film della sezione controcampo. e se Bellocchio invitava i giovani a non fare cinema, io benedico questi giovani che mi hanno fatto sorridere, pensare e passare un paio d’ore senza dover per forza dover assistere ad opere presuntuose, come m’è capitato stasera rivedendo Buongiorno, notte: anche nel cinema ci vuole umiltà, eh si. (ecco spiegata la mia deriva vanziniana che mai e poi mai rinnegherò)
una mostra sobria, poche presenze irritanti, nessuno scandalo, nessun film culto - unica scena cult la coscia di pollo in Killer Joe
Come sempre la solita carovana dei sempre presenti agli eventi mondani, tanto è tutto gratis e l’atto di presenza è dovuto, giusto per riempire la sala grande che altrimenti resterebbe vuota se dovessero pagare, ma pure questo fa parte della festa e certe consuetudini sono difficili da eliminare, e dire che nella manovra salva debiti ci sarebbe stata bene un emendamento: niente più inviti gratuiti ad eventi mondani, magari si salvava qualche pensionato.

Insomma, una gran bella edizione, l’unico neo è stato l’episodio del biglietto sbagliato, per colpa di una cassiera distratta e di un insolente dipendente ho perso uno dei film premiati, ma devo ringraziare una della direzione biennale cinema, visibilmente irritata dai colleghi che non volevano rimborsarmi il biglietto, mi ha fatto avere scuse e un omaggio proprio per faust, alla fine il risarcimento è stato meglio della beffa.
Infine una menzione alla security, non quella dei controlli ai cancelli ma quella delle scorte: fisici massicci, abbronzatura omogenea, sguardo incazzato, tutti uguali, secondo me il loro mito sono i colleghi che vigilano su berlusconi, lo avevano scritto in faccia, erano la loro fotocopia, brutti uguale, ecco.
E con questo un saluto al cinema che ha chiuso oggi e a Muller che purtroppo lascia la direzione artistica e un benvenuto al cinema che è già dietro l’angolo, la lanterna magica è sempre la benvenuta. Ciao.

A scuola di barbarie


di Anna Lombroso

Comincia la scuola… io sono a Venezia, ripenso a Calvino che ne parlava come dell’utopia urbana realizzata e della città modello per il futuro: la linea più breve che unisce due punti non è mai la linea retta, tranne che nelle astratte costruzioni di Euclide. …. Venezia ha fatto della relatività dello spazio nel movimento il suo principio fondamentale, componendo tracciati che possono combinarsi e permutarsi in vario modo collegando tutti i punti della città nelle due dimensioni acquatica e terrestre. …Caratteristica del genere umano è l’aver compiuto gran parte della sua evoluzione non sulla terra ma per aria, sugli alberi; la linea evolutiva al cui termine sta l’uomo è passata dalla vita acquatica a quella arboricola e solo in un terzo momento a quella terrestre. Perciò la civiltà umana tende verso soluzioni che concilino i tre modi di vita terrestre aereo e acquatico. In questo quadro la soluzione–Venezia è una delle più complete approssimazioni al progetto d’un ambiente umano pluridimensionale.

Ma a pensarci bene sarebbe anche la più attrezzata per governare la globalizzazione. Sempre ammesso che la storia arrotolandosi su se stessa potesse insegnare qualcosa. La sua potenza, si potrebbe definire una sorta di imperialismo monetario più che territoriale, fondato sul mercato, gli scambi, l’influenza. Una città “aperta” dove non esistevano scuole pubbliche, ma trasmissione dei mestieri attraverso l’apprendistato, e dove col crescere della ricchezza cresceva anche la curiosità intellettuale, il desiderio di conoscenza, cui non bastavano più l’esplorazione, il viaggio. Una città che oggi diremmo, faceva “rete” per allargare il suo orizzonte e il suo futuro, comprando, ascoltando, cercando, accogliendo.

Pensiamo all’istruzione: oltre alle università – Padova era stata “assoggettata” da Venezia, e là studiava la classe dirigente cittadina - fiorivano altre forme di formazione superiore. Studiosi illustri erano chiamati a tenere lezioni, corsi di filosofia erano tenuti a Rialto, finanziati con fondi privati. Proprio a uno di questi avrebbe dovuto partecipare Petrarca, residente in Riva degli Schiavoni fino a poco prima della morte. La passione per la cultura umanistica, per il latino e il greco, sono testimoniati anche dai lasciti di studiosi alla Biblioteca Marciana, come nel caso di Bessarione. Anche l’innovazione tecnica costituita dalla stampa a caratteri mobili accresce il potere di attrazione di Venezia nei confronti di intellettuali e studiosi umanisti. Dall’ultimo venticinquennio del Quattrocento la città diventa il centro europeo più attivo nella produzione di libri stampati. Gli umanisti si rivolgevano a Venezia per pubblicare le proprie opere e per ottenere le edizioni migliori dei classici. E’ entrata nella storia la vicenda di Simone Valentini, di professione mercante, che include nel suo testamento clausole relative all’educazione dei figli. Che vuole eruditi non solo della matematica, della pratica commerciale, della scienza, ma della filosofia, dei classici, della logica. Ma non per farne dei medici e degli avvocati, bensì solum mercatores, solo mercanti. Molto modernamente quindi, più colti, più sicuri, più competitivi. E quindi anche più congeniali al grande progetto di una potenza egemonica in termini commerciali, politici e culturali.
È questo il grande collante: contro gli elementi ostili, contro i nemici esterni, contro i tentativi di disordine evitati piuttosto che repressi, Venezia nell’epoca della sua grandezza, ha sempre risposto con la constantia dei suoi abitanti, con l’aspirazione comune all’interesse generale, in nome del quale viene condotta tutta la politica di espansione ad honorem et utilitatem patriae.

Si ha ragione Calvino, Venezia è stata una sorta di pratica e realistica utopia realizzata e realizzabile (e non a caso la prima edizione dell’Utopia si stampa proprio qui). Qualcosa che l’uomo di governo contemporaneo dovrebbe saper e voler fare nell’interesse generale, in quello del suo futuro e del futuro dei suoi figli. Che bisognerebbe ricordare a chi manda i figli alle scuole americane per affilar loro gli artigli della competitività e dell’arrivismo. A chi pensa che basta essere “informati”, perché ormai la trasmissione del sapere è mediatica, contano il mercato e il consumo, che orientano pareri convinzioni e aspettative con una capacità pedagogica immensa. Quindi non si impara da chi sa. Eppure di gente che sa ce n’è, mentre è meno chiaro che cosa una moderna società dovrebbe sapere, come mettere a disposizione e condividere la comunità del sapere del singolo in modo da rendere partecipi gli altri della conoscenza, eliminando non l’istituto ma la cultura del copyright.

Si se uno ne sa di più non deve poter sigillare quel patrimonio in una proprietà sua, perché il sapere non può e non deve essere un bene privato, non può costituire e determinare separatezza e anche il suo committente oltre che il suo utente deve essere l’interesse comune.
Sta venendo meno uno dei caratteri del sistema in cui viviamo: quella capacità di rendere gli uomini schiavi facendo credere loro di non essere mai stati così bene. Fino a poco tempo fa questo sorprendente risultato era conseguito attraverso l’abbondanza e l’accesso ai consumi. Ora invece si diffonde la percezione che all’arricchimento dei pochi corrisponda l’impoverimento dei molti in un tremendo crescendo inarrestabile. E così è per l’istruzione e la conoscenza, competenze sempre più chiuse in enclave superfinanziate, scuole sempre più private ed esclusive, comunicazione grezza sempre più estesa cui fa da contrappunto una informazione sempre più ridotta e detenuta in poche mani: tutto congiura per proteggere e includere la sapienza del privilegio e respingere la curiosità e il diritto a sapere di chi ne è emarginato.

Barbari è una parola che indica un deficit di civiltà e di cultura. E che evoca anche l’oblio. Per questo non è rituale dire che siamo noi i nuovi barbari, lo siamo chiamandoci fuori dando un appoggio impercettibile a volte inconsapevole alla deriva spettacolare, volgare e ignorante, accettando di credere che la civilizzazione è un processo concluso con il raggiungimento di livelli di benessere, peraltro fortemente minacciati. E che la cultura serva per fare carriera secondo quei principi di mercato, profitto e realismo cinico, e non per fare amicizia con noi stessi e gli altri conoscerci meglio, noi, i diversi da noi e in mondo intorno a noi…e poter essere più felici.

sabato 10 settembre 2011

La Ami di papà


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Non è ancora calato il sipario su questa 68esima mostra del cinema ma il mio festival s’è concluso oggi,
Il giorno di Marco Bellocchio, leone d’oro alla carriera.
Cerimonia nel pomeriggio, premio consegnato da Bertolucci, visibilmente commosso. Nel suo discorso di ringraziamento ho intuito una lieve frecciatina sul mancato leone d’oro al suo film, brutto secondo me, Buongiorno, notte. E se prima non mi era simpatico ora Bellocchio per me è un regista qualsiasi. avesse vinto il leone alla carriera qualcun altro avrei sprecato due righe in più.
Ecco qua, scusatemi ma Bellocchio mi è davvero odioso!


I film del festival, quelli in concorso, l' ultimo, visto stasera: Texas killing fields, un thriller basato su fatti realmente accaduti, diretto da una regista americana, Ami Mann, figlia del grande Michael, uno dei miei registi preferiti in assoluto.
Il film narra di una serie di omicidi e delle indagini svolte da una coppia di detectives dai caratteri opposti, uno cuore e l’altro mente. Ma il protagonista è senza dubbio Brian, uomo profondamente religioso che agisce in piena empatia.
E' un buon film solo non si capisce chi sta dietro la macchina da presa, c’è troppo Michael Mann, si respira il suo cinema. La figlia fa un gran lavoro ma scopiazza papà e non so quanto questo possa esser, questo, un pregio.

E finisce così questo festival. Domani verranno consegnati i premi, io non ho visto tutti i film in concorso e solo uno dei tre italiani  e non sono riuscita a vedere nessuno dei film orientali, ahimè.
Ma di quel che ho visto direi che il mio leone d’oro va a Shame, la coppe volpi al Mefistofele russo e alla Winslet di Carnage.
Chissà se ci ho preso.

venerdì 9 settembre 2011

Da Faust a Tognazzi


spedio dal Lido De Venezia da miss Apple

L’una passata, un foglio bianco, tre film visti e tante cose da scrivere.
comincio dalla cosa più difficile, dal film più difficile, Faust del maestro russo Sokurov.
mi bastano però poche parole: non ci libereremo mai del male.
Il film non è una trasposizione dell’opera di Goethe, ma un viaggio, quasi fosse un sogno. un film molto parlato, mai un momento di silenzio, mai una tregua, tutto d’un fiato un continuo rimpallo tra il bene ed il male, tra la vita e la morte, il dottor Faust ed il diavolo, e tra loro l’amore. che dire, bello, bellissimo.

Poco prima lo spettacolo dell’abbonamento, Killer Joe, storia di ordinaria follia in una periferia texana.
dal regista de l’esorcista, ancora un giovanotto -eh, questa storia di disastri familiari tra il demenziale e il tragi-comico. Racconta in realtà di un dolore per il mancato affetto nell’infanzia, ma con sarcasmo, si ride di fronte a questa commedia umana che si consuma tra roulotte, bar, musica country e cosce di pollo fritte. consigliato agli amanti del genere tarantino - kitano, (jappo, kitano, si, ma ci sta)

Ed infine, giusto per menzione il film della ditta Tognazzi-Izzom, tutta colpa della musica, nulla di particolare, giusto un affresco della provincia italiana.

E a proposto di controcampo italiano, di cui faceva parte anche il film di Tognazzi, mi è stato segnalata la vittoria della sezione del film Scialla! che tanto mi era piaciuto e sono felice abbia vinto, non fosse altro per quel professore così amusing e ben interpretato da Fabrizio Bentivoglio.
Domani, anzi, è già domani, venerdì. ultimo giorno, sento nostalgia. Sarà difficile rimanere senza tutto questo cinema.

giovedì 8 settembre 2011

Prendere a calcio la civiltà


di Anna Lombroso

Non ho una squadra del cuore salvo una certa simpatia da zingara bene accolta per la Roma, tanto che in occasione di uno scudetto aiutai il mio amico Zaccagnini a tinteggiare di giallorosso la gradinata di via dei querceti.
Considero i calciatori uno dei prodotti, ahimè poco effimeri – giocano fino a età imprecisate – della società del consumismo, del narcisismo, della mediatizzazione e della mercatizzazioni dei corpi e delle loro prestazioni. Insomma li considero né più né meno alla stregua delle veline, con buona pace di senonoraquando. Quarti di bue un po’ più dinamici magari visto che le loro performance avvengono su un campo e non su un letto, ma altrettanto inespressivi di pensiero e civiltà.

All’indifferenza è subentrato un entusiasta odio di classe in occasione dei recenti avvenimenti. E comunque, da quando avevamo un premier bi-presidente, che gestisce paese e squadra come due proprietà, dall’una prende e all’altra dà, nel pieno esercizio della sua perversione commerciale, beh il calcio proprio mi è odioso, come mi succede con i vari “oppio dei popoli” e gli svariati anestetici di massa. Alle ore 11 del giorno 8 settembre il monitoraggio permanente che effettuo sulla manovra mi rivela che il contributo di solidarietà per sovramilionari del pallone è stato mantenuto, o ripristinato, o messo là ma non si sa, e certo sarà un duro colpo per chi ha avuto ingaggi da 18 milioni, dieci milioni, otto milioni, cifre che mi fanno venire in mente un gioco che si faceva da ragazzi: che valigia serve per contenere certi malloppi? certe mazzette? certe evasioni?

È che il calcio è diventato un affare di Stato, perfino “concordatario”. Sono andata a riguardarmi un alato scritto dell’attuale pontefice, “il gioco e la vita” che risale a quando era arcivescovo di Monaco di Baviera, e nel quale Ratzinger con entusiasmo spericolato si riferisce ai mondiali di calcio come a un evento ecumenico e mistico di massa, capace di avvicinare alla divinità e alla salvezza.
Anche senza voler menzionare l’Heisel già cinicamente consumato da Veltroni, gli episodi di violenza negli stadi, il passaggio repentino da abatini ad ultras, ma soprattutto la potente oscura scellerata circolazione di denaro visibile e opaco tra ingaggi e scommesse, a tutto farebbero pensare salvo a quello che il Papa definisce un esercizio che trascende la vita umana rivelandone la libertà e il connesso anelito a spingersi verso l’alto e il Paradiso che abbiamo perduto. E infatti i mondiali che coinvolgono milioni e milioni di persone, rappresentano un evento senza pari e con tali ripercussioni da dimostrare che si sta toccando qualcosa di profondamente umano. Dal calcio impareremmo la cooperazione disciplinata e un affrontamento onesto, nientepopodimeno. Certo sarebbe meglio non farlo sapere al presidente del Milan e soprattutto al presidente del Consiglio che secondo il suo partner privilegiato per quanto riguarda oscurantismo e invasività aberrante nelle vite e nelle convinzioni dei cittadini, il calcio insegna ad armonizzare la vita con le regole e fa capire che la libertà vive nelle regole, una materia insomma che al premier piace ben poco, attrezzatura ideale per arcaici, sfigati comunisti.

Altro che trascendenza, la verità è che invece il calcio è da anni sempre mento un gioco e sempre più un affare adatto a questi tempi di accumulazione, profitto, competitività, esibizionismo, spregiudicatezza. E voyeurismo, se lo sport come molte altre pratiche contemporanee è ormai qualcosa da vedere più che da esercitare, cui si partecipa seduti, sempre meno allo stadio e sempre più davanti a sky, immersi in una utenza solipsistica e rancorosa, con la squadra che non soddisfa le aspettative, con gli altri, che tifano per altre società e diventano inesorabilmente ostili, antagonisti, nemici. Siamo a guardare da marginali una gigantesca macchina consumistica che assume sempre di più un significato politico, mobilita quattrini, suscita consenso e dissenso e smuove un immaginario formidabile e fragile, cruento e docile alla persuasione.
Il tifo è una di quelle passioni tristi delle quali aveva paura Spinoza, perché generano sopraffazione, tirannide e ubbidienza. Alimenta affiliazione cieca - la squadra non si discute, è un credo - irride al rispetto degli avversari, disprezza regole condivise, produce identificazioni in miti e modelli discutibili se non negativi, legati al facile arricchimento, a carriere effimere che non prevedono studio bellezza e conoscenza e che gravitano intorno ad ambienti altrettanto mediocri, nei quali il primato va al corpo e alle sue performance, al denaro che lo può comprare al Gallia o a Arcore, a consumi dissipati di beni inutili.

Non è moralismo dire che il gioco - che dovrebbe indirizzare alla qualità delle relazioni, alla bellezza creativa e gioiosa della fantasia, del ridere, del vincere in compagnia con altri e del sorridere se si perde, della confidenza e della fiducia in una “squadra” e del riconoscimento che viene quando il branco non è animale ma umano – ecco, si, così il gioco non ha più nulla di morale, nulla di civile, e ripropone come in un triste copione la crudezza dell’esistenza, le disillusioni, le sconfitte che dovrebbe farci dimenticare. Avremo meno pane, i circenses non sono più quelli di un tempo. Forse è venuto il momento di fare il tifo per la squarda del cuore, quelle dei diritti, della politica e della libertà.

Quando la notte va in bianco


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Ottavo giorno di cinema, ottavo giorno di mostra e secondo film italiano in concorso: Quando la notte, di Cristina Comencini.
Ebbene, sono riuscita vedere un film davvero brutto. non ha senso fare film così, non ha senso perchè non aveva nè capo nè coda. Voleva parlare delle difficoltà dell’esser madre, almeno questo era quello che la regista intendeva offrire con questa pellicola. Ma non c’è riuscita, avrebbe potuto parlarne attraverso altre mille storie, ci sono molte occasioni che portano alla luce le difficoltà di una maternità.
La regista ha, invece, scomodato il fantasma di Cogne: sì, Cogne aleggiava durante tutto il film - inutile che la regista neghi l'evidenza - la montagna, la baita, il bambino. No, non ci sono infanticidi nel film, non voglio con questa mia considerazione portare a precoci ed inutili conclusioni, ma Cogne c’è e si respira per tutto il film, almeno è quello che è successo a me, e non solo.
E poi era così irritante la protagonista, Claudia Pandolfi: qualcuno abbia il coraggio di dirle che non sa recitare, che è una pessima attrice, giusta per qualche fiction ma, per favore, toglietele la qualifica di attrice drammatica perchè riesce solo ad esser fastidiosa e rovinare una qualsiasi interpretazione.
Di Filippo Timi non riesco a parlar male, scrissi giorni fa che è, attualmente, uno dei migliori attori italiani, ma questo film ha avuto il potere di rovinare tutto, pure lui.
Mi dispiace per la regista, che qualche buon lavoro ha pure fatto, ma questo era un progetto troppo ambizioso e ne è uscito un risultato maldestro.
Il film non aiuta le donne, non aiuta le mamme a non aiuta nemmeno chi dovrebbe scrivere di cinema per diletto, come la sottoscritta, si rischia di dover scrivere cose cattive, come ho dovuto fare ora.
Sono fuggita appena apparsi i titoli di coda, si sentivano applausi, pare abbia avuto successo con il pubblico in sala grande, alla proiezione per la stampa pare abbia avuto qualche dispettoso fischio.
Domani, domani sarà il penultimo e già sento che sarà difficile salutare questa mostra. perchè è stata, finora, una bella mostra

mercoledì 7 settembre 2011

Il villaggio di Olmi nell'Italia di cartone


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Le news dal lido, in questo giorno che, credo, ricorderò per un po' come sgradevole. Ma ho capito che gli imbecilli vanno trattati da tali, ho ottenuto un biglietto omaggio per un film a scelta.
La cosa che più mi ha lasciata perplessa è stato l’accanimento contro chi, come me, paga tutto e chiede nulla: se quello fosse stato un mio dipendente ora sarebbe per strada, per trattare con il pubblico ci vuole intelligenza,
ma tutto è finito bene e potrò pensare ad oggi come al giorno in cui ho visto un solo film, il film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone.
Quando si pensa ad Olmi si pensa ad un cinema impegnativo e, perchè no, pesante. Olmi, i Taviani e Pasolini anche, son sempre stati, per me, i registi puri e il loro un cinema puro, asciutto ed essenziale. E allora ho pensato che l’unica cosa era di entrare e vedere un film di Olmi aspettando solo Olmi con il suo cinema che sa quasi di campagna, un cinema rurale, ecco.
E così ho fatto e ho visto un film pieno di poesia, di amore e speranza.
Trattandosi di una storia che si svolge in una chiesa, anche se sconsacrata, non poteva che esser così. Non è un film da vedere al primo appuntamento con la fidanzata, nemmeno con l’amante. Tenero e dolce omaggio a chi ha bisogno, a chi ricerca la felicità lontano dal proprio paese ed invece trova ostilità e diffidenza.
Ma, a volte, ci sono uomini che pensano che il bene sia oltre la fede e questo da speranza.
Potrebbe esser un messaggio fortemente religioso ma io credo sia un semplice messaggio universale: quello dell’integrarsi senza paura di ciò che non consideriamo come nostro.
Vorrei poter esser sempre così. come il prete del film. ma, ahimè, non ho quella sua forza.
Applaudito a lungo senza una vera ovazione, era applauso caloroso che suonava quasi di condivisione e rispetto.
E domani un altro film italiano. Questa volta in concorso.

martedì 6 settembre 2011

Caste e cialtroni di laguna


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

In Italia vige una regola: la legge non ammette ignoranza, e io sono stata ignorante, non ho controllato un acquisto.
Ieri mattina, prima di una proiezione, ho preso un biglietto per il film di oggi pomeriggio, alle 17.
Avevo il sospetto che la signorina della biglietteria fosse un po scema ma avevo dato la colpa al gran caldo e all'afa, capita no, di esser confusi quando il clima è appicicaticcio!
Sicché prendo biglietto, metto via e oggi torno, entro e mi rendo conto che il titolo e la data ai riferiscono al film di ieri, sempre alle 17.
Chiedo aiuto a un tipo che conosco e mi suggerisce di parlare con delle signorine al desk, premurose anche, che cercano di aiutarmi, cercano biglietti omaggio ma, innocentemente, mi dicono che gli ultimi li ha presi una facoltosa signora "meno di quelli che chiedeva, perché erano pochi".
Si qua siamo in pochi a pagare, la famosa casta dei ricchi non paga, paga chi, come me, guadagna 1550 euro al mese.
Mi portano dal responsabile di biglietteria che, con aria da presa per il sedere, mi dice che dovevo controllare io e che niente, non c'è niente per me.
Chiedo allora se un analfabeta deve andar a comprare i biglietti accompagnato, vista la disorganizzazione della biglietteria; si, disorganizzazione, perché una signora aveva pure lei il biglietto sbagliato, ma per il film di domani.
Fortunata lei, che pure doveva controllare al momento dell'acquisto, ma accortasi solo poco prima di entrare, il biglietto lo hanno cambiato
Così funziona la biennale, succede anche questo: che io resto fuori e con 12 euro buttati al cesso
La legge non ammette ignoranti, forse li analfabeti, si..(Spero che il film che sto perdendo sia orrendo).
Umpf!

Cavalli e talpe? Meglio Rocco

spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Al giro di boa il mio festival del cinema e, finalmente, a Venezia tornano temperature sopportabili. Oggi i soliti due film, quest’anno non mi riesce di andar oltre, e forse è meglio così. Un film italiano, come mattinee: Cavalli, di Michele Rho. Poche parole per questo film che non mi pento di aver visto ma che dimenticherò presto, una sorta di western italiano, la storia di due fratelli, in un tempo oramai lontano. Vinicio Marchioni è tra i protagonisti, e qua spendo due parole in più: recita sempre uguale, qualsiasi film faccia lui sarà sempre il “freddo” della serie “romanzo criminale” ma non per via del personaggio difficile da scrollare ma perchè la sua è una recitazione monocorde, non cambia, recita allo stesso modo, stesso intercalare, come se stesse recitando un personaggio che recita, ecco. E non fa bene ai film questo esser sempre uguali.

Poi il film della sera, il film dell’abbonamento: arrivo in sala grande sapendo che si tratta di una spy story, il romanzo è famoso, La talpa: grandioso cast, il meglio del meglio al servizio del regista svedese Alfredson e inizio la visione, senza non aver prima notato la presenza di Massimo Boldi e Rocco Siffredi, bello Rocco, ostrega! Seduti davanti a noi, un belvedere insomma. Inizia il film: atmosfera fumosa, colore rilassante, il motivo musicale meraviglioso, qualche battuta e.... e io mi addormento un po, una sorta di dormiveglia, sento le voci ma non sento..sicchè ho perso il filo e non ho capito il resto della storia, ma tanto vince sempre quello che manco te l’aspetti..una visione di film davvero molto rilassata e riemergo definitivamente con una bellissima musica: una versione francese di beyond the sea, ed il film finisce. Bello, eh,  applausi applausi ed ancora applausi, come non adorare un cast simile? Anche se non si è capito gran che. Ed accanto a questa intricata spy sory si inserisce un’altra storia: che ci faceva max -cipollino- boldi con rocco? dove se ne sono andati durante la proiezione? E, soprattuto, dov’è finito Carlo Vanzina?

lunedì 5 settembre 2011

Flussi di incoscienza su facebook

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Per sempre Jung


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

E io come faccio adesso a dire che Shame, il film di Steve McQueen non mi è dispiaciuto?
Ecco, parto subito con l’argomento scomodo: il film scandalo del regista inglese, la sua seconda opera tanto attesa a questo festival. e io, incuriosita da questa attesa, ho preso il biglietto e ho visto un film pieno di sesso e solitudine.
Ed è nata una nuova passione per questo attore che vedo per la seconda volta in questo festival: Michael Fassbender (Jung in a Dangerous method), bellissimo e pure bravo, perché non era facile il film di stasera. Non era facile il ruolo del malato di sesso, il sesso come fuga da tutto, dagli impegni, come fuga dall’amore, anche quello per la sorella.
Qualcuno ha gridato vergogna, in sala. ma non mi pareva un film di cui vergognarsi tanto, son ben altre le vergogne.
E prima di Shame ho visto il film/documentario Wilde Salomè, il film di Al Pacino che racconta come nasce la sua avventura teatrale dell’opera di wilde passando tra palcoscenico, camerini, riunioni e anche tra gli scritti di Wilde. Bel  film che esalta la vita dello scrittore irlandese attraverso questa sua opera che viene spezzettata, analizzata e recitata dallo stesso Al Pacino e da una brava Jessica Chastain, nuova musa dello star system hollywoodiano.
Il regista attore italo americano era presente a Venezia per ricevere un premio, che ha ritirato prima della proiezione. Sala in adorazione di questo attore istrionico, l’unica delusione è stata vederlo sedotto da operazioni ringiovanenti, mi dispiace vedere che questi uomini si assomiglino tutti, ad un certo punto pensavo di vedere Silvester Stallone.
Ma sulla paura d’invecchiare potrei perdermi in mille pagine e chiudo raccontando di una breve chiacchierata -proprio su quanto sia brutto vedere questi miti così spaventati dalla vecchiaia- con un bellissimo giovanotto italiano: occhioni verdi e belli, barba incolta, capello selvaggio, si chiama Adriano ed è bello quanto suo padre, Giancarlo Giannini.

domenica 4 settembre 2011

Contagion... la security della mostra in allarme


spedio dal Lido de Venezia da miss Apple

Contagion. Sarà mica stato girato a Napoli?
Comincio così il raccontino di stasera: stavamo sulla pedana dei fotografi a veder un po' di red carpet e, improvvisamente, arriva uno della security, cervello “ormonato” di prima serie, presto, via, entrate, dovete andare via e mi spinge: no, non si spinge miss Apple, perché miss Apple s’infuria, lo manda a quel paese e va dal capo security a spiegare che, i dipendenti, vanno istruiti per bene.
E dopo aver sistemato il seguace dei body guards style entro in sala e inizio a vedere il film di Soderbergh: Contagion.
Un action movie, due ore di fila senza sosta, incalzante, bellissima musica -sottolineo tre volte- forse anche inutile come film, per certi versi.
Ma non lo boccio, non andrei più a vederlo, lo avevo in abbonamento -si, io pago, per vedere i film, niente biglietti omaggio- e non mi è dispiaciuto. Parla di un contagio, della rapida diffusione di un virus che sfugge al controllo e che miete vittime prima che si trovi il vaccino giusto.
Parla anche del diffondersi di notizie false, di come internet, strumento sacro e libero, possa diventare pericoloso e dannoso se in mano a dei pervertiti mentali.
Insomma, c’è un po di tutto nel film: ma è nel finale che arriva la morale: mai abbattere le foreste. se vedete il film capirete il perchè di ciò, non posso svelare, è pur sempre un action/thiller/movie.
Pubblico sobrio, poche sgallettate, molti yankee, pochi applausi, a dire la verità,accoglienza non proprio calorosa.
Aspetto domani, tempo incerto, regata storica, ma c’è al pacino e, nel tardo pomeriggio, si vola dritti al lido.


Le lenticchie del Cavaliere


di Anna Lombroso

I caffè a Venezia sono degli osservatori formidabili della vita pubblica. Mio nonno da De Vidi in campo Santo Stefano ci teneva l’ufficio, riceveva clienti, a volte si avvicinava il cameriere ossequioso e discreto “ghe xe una telefonada per lu, maestro” e il nonno entrava e parlava a lungo all’apparecchio nero e sinistro appeso al muro. Da Venezia, diceva, prima o poi “tuti ga da passar” e seduto al caffè li osservi li ascolti qui tutti.

Ieri per esempio proprio in quel campo mi è successo di stare seduta accanto all’idealtipo dell’elettore convinto di questo governo. Un piccolo berlusconi posseduto dal demone del grande berlusconi. A vederlo un individuo tranquillo, anonimo, qualunquemente perbenista, ma animato da una ferocia belluina, da un livore bestiale, da una smania di sopraffazione originata dall’ansia di conservare piccoli privilegi. Per chi si accontenta sembrerà un ottimo marito, sembrerà un padre coscienzioso, sembrerà un figlio amorevole e probabilmente un nonno solerte e bonario. Ma in realtà lui è Berlusconi. Che non è un errore nel meccanismo di riproduzione del codice genetico del popolo italiano. E forse non è nemmeno la causa della malattia o dell’anomalia. È stato il sintomo, un fenomeno antropologico, il volto prestato a un tipo umano, un particolare genere di italiano, che è andato crescendo e moltiplicandosi al meglio nel processo di decostruzione sociale della vecchia Italia democratica e industriale, borghese e operaia, cattolica e comunista.

È l’abitante dell’Italia ospite spaesato della globalizzazione, dell’elettore consumatore d’immateriale, che spende il proprio voto come si spendono al mercato i propri soldi, per acquisire qualcosa di altrettanto incorporeo e privato: appartenenza, privilegi, micro-potere, sicurezza. Quella sicurezza iniqua e diffidente che piace a chi è merce tra le merci, una combinazione di possesso, di istanza di soddisfazioni immediate, di proprietà di beni superflui, di accumulazioni simboliche.

Ma c’è qualcosa di antico in lui, quel misto arcaico di clientelismo e delle prassi a lungo termine della Chiesa, di sottomissione e docilità nei confronti delle gerarchie sociali e di arroganza nei confronti dei più deboli. La ricerca di santi in paradiso, il ricorso alla spintarella, alla raccomandazione, mossa da un istinto perverso all’instaurarsi di rapporti patrono cliente, governati da una devozione da inferiore a superiore che non conosce limiti e rimorsi, ispirati da sottomissione e rassegnazione.
Guardandolo ieri il piccolo individuo più piccolo del piccolo Cesare, mi domandavo il perché della fedeltà a un sistema di potere che gli ha portato pochi benefici diretti. Il piatto di lenticchie con cui il premier l’ha comparto non è così ricco né così ghiotto. Perché a mangiarlo ci hanno pensato tutti i voraci famigli di quel ceto politico.

Ma quell’ometto perbene gode dello spirito del tempo, si è accomodato dentro a un sistema plasmato della corruzione, dal clientelismo e dal familismo che hanno prodotto una socializzazione di massa della pratica dell’irregolarità fino all’illegalità diffusa: raccomandazioni, prebende, mazzette e su su appalti, corruzione sistemica, connivenza con organizzazioni criminali. E d’altra parte anche lui tiene famiglia. Bobbio diceva che per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio e così ne rimane ben poco per la società e lo Stato. È così per questi uomini tranquilli e coscienziosi, che si piegano al sacrificio anche della dignità per i loro cari, ma per i quali è troppo caro impegnarsi per il bene comune.

Ora sono spaventati, delusi, anche loro rischiano una perdita, quella dei piccoli beni al sole, dei piccoli privilegi ereditati per nascita. Così se la prendono con gli immigrati che hanno spruzzato in giro irregolarità e Tbc, con i politici gli altri che conservano favori e privilegi, con le donne che non stanno più al loro posto, con gli studenti, ma andassero a lavorare, con gli operai mai contenti, con i magistrati che invece di dirimere la bega del loro condominio fanno politica, con la politica che la politica non la fa più o la fa troppo. Scontenti, pieni di rancore, girano il caffè guardando passare il mondo e non vogliono accorgersi che sono passati loro.