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giovedì 22 settembre 2011

Alla ricerca degli appelli perduti


di Anna Lombroso


Li scrivono li leggono agli amici, magari al cellulare con l’ombrello che si rovescia col vento, raccolgono le firme li mandano ai giornali e non dite che non fanno opposizione, che non esercitano critica. Perché a volte quella firma in calce comporta qualche rischio impone qualche ritrattazione. In tempi difficili è un impegno quotidiano accelerato dare forma all’appello c’è sempre da difendere la libertà, smascherare bugiardi, fustigare conformismi, accidenti. E anche governare l’eccesso di consenso, perché a troppi piace vedere pubblicato il proprio nome insieme a eco-baricco-errideluca-mauro- spinelli-urbinati- bonomi- teodori-hack-villari, in fondo sono quei trenta secondi di celebrità che non sarebbe giusto negare a nessuno.

Fin da “né con lo stato né con le br” passando per altari e ludibrio, per ostensioni e sostegno, da quello a Battisti in gita a quello della magna charta pro Gelmini, dal premio nobel cinese, alle sanzioni per i pompelmi, da salviamo sakineh a abbattiamo i governi canaglia ma anche da quello per la legittima luminosità delle stelle a quello per proibire i botti di capodanno che turbano il migliore amico dell’uomo.
E poi ci sono gli appelli sconcertanti per “segmenti di diritti”, donne contro il consumo dei corpi, ma solo femminili per carità che gli operai di mirafiori mica sono in topless sulle copertine. E maschi per la Costituzione, come se democrazia e libertà non fossero già fatti ampiamente a fettine. E comunque la cifra unificante è che tutti non ne possono più!

Ora e so di non essere sola, mi chiedo dove sia collocato il cestino degli “appelli stracci” dopo la mezz’ora di notorietà , dove finisce lo sdegno a orologeria, gli spot della disapprovazione che interrompono l’emozione dell’appiattimento, della comodità.
Lo strumento sarà arcaico ma invece finalità e effetti sono quanto mai moderni: forme di impegno e militanza istantanei come il nescafè che come quello innervosiscono poco, come l’usa e getta – nel cestino mediatico – volubili ed effimeri come il mi piace e il copianicolla su Facebook. Con una differenza, che quelli rappresentano e testimoniano del club esclusivo della “cittadinanza”, una casta trasversale alle caste che per questa appartenenza rischia sempre di rivelarsi embedded, influenzabile dal privilegio. E nella rete invece verbalizzano sia pure in modo primitivo gli “altri”, una moltitudine che ha come faccia l’immaginetta di FB e poca voce in capitolo ma che se trova forme di aggregazione e pressione più mature, potrebbe avere una potenza formidabile.

È che nella totale latitanza delle èlite la figura dell’intellettuale engagè,impegnato, dell’uomo di cultura che rischia la faccia e testimonia dissenso con la sua produzione e la sua azione quotidiana, ha assunto i connotati ingenui e antichi di una figurina del passato tra Cafè de Lilas e comparsate in manifestazioni “a fianco di…”. Non è colpa loro, non è che non c’è più Sartre e Chomsky invecchiando tende a delirare, non è solo che Deleuze e Guattari sono troppo dimenticati. È che oggi trionfa quella forma di kitsch che prevede l‘uso improprio delle intelligenze dissipate tra regie da oscar e spot, tra semantica e gialli storici costruiti al pc, tra tentazioni di globalizzazione e ammirazione per il localismo, tra diniego del consumismo e cedevolezza all’essere consumati, amati, blanditi, soprattutto profumatamente pagati.

Non ci sono più i “maestri” a diffondere verità generali per lo più scomode, il pensatore impegnato si è liquefatto nella gelatina della spettacolarizzazione e dei suoi teatrini, semmai ci sono “tecnici” sempre meno autorevoli col loro gergo sempre più esclusivo che invece di accendere coscienze le spengono in una generale assuefazione a realtà raccontate, che si tratti di nucleare, di finanza, di “mondo”.
E il lavoro intellettuale si è proletarizzato a cominciare dall’università, dove il professore è stato declassato e magari non è proprio un danno, e dalla scuola dove l’insegnante vive al limite della sussistenza e questo invece si è certamente effetto deleterio. In un mondo stivato di messaggi, dove scivolano via fiumi di parole, slogan e immagini in un fluire irresistibile e poderoso, dove il tasso di comunicazione si è alzato, ma quello di informazione invece è ancora limitato e dedicato a pochi, dove dimensione pubblica e pubblicità si sono avviluppati in un nodo perverso, non c’è più nessuno di sufficientemente credibile e autorevole per mostrare la rotta.

Una volta i poveri erano artatamente tenuti nell’ignoranza. Ora possiamo con armi impari ma sufficientemente affilate combattere contro la manipolazione e la disinformazione. E guardarci dai maestri che per lo più sono cattivi, se sono abilitati solo all’invettiva, all’esibizione, alla comparsata.
Tanti anni fa uno storico, E.P.Thompson, autore di un libro del quale dovremmo riprendere il titolo come slogan: La tromba suonerà, ne scrisse un altro che si chiamava “Uscire dall’apatia” che invitava al risveglio, che non c’è stato, se guardiamo al profondo sonno delle coscienze e al letargo della sinistra e di una intellighenzia che mai nemmeno sotto il fascismo è stata così arrendevole dei confronti dello stile di vita, del pensiero dominante e della lusinga di visibilità e quattrini. Che annacqua il veleno in cui riposa con qualche appello che addomestica latenti sensi di colpa e li fa sentire insieme tra affini nella sottoscrizione di parole cui non seguono azioni.

Non so se aveva ragione quello slogan: diffidate di chi ha più di trent’anni, non credo sia quella la soluzione, credo dovremmo diffidare di chi ha più di un tot in banca di chi si è fatto intruppare in vario modo nelle compagini di un conformismo egoistico e consumistico, di chi si è castrato da solo per accomodarsi dell’apatia opulenta. Chi non è così per inclinazione, indole o necessità può esser obbligato e contento di uscire dall’apatia, di svuotarli quei cestini codardi e riprendere il coraggio difficile ma appassionato del futuro.

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