7555a9d03dfe41c98f85ac913f34049d

Cerca nel blog

lunedì 31 ottobre 2011

Folengus impudentem assessorem svergognat

di Alberto Capece Minutolo

I nostri tempi almeno in qualcosa sono generosi: ottusità e idiozie sgorgano come da una polla incontaminata dall'intelligenza, dal gusto, dalla sensibilità. Insomma da quelle terribili fonti di inquinamento del nulla che sono le idee e l'informazione. Così non stupisce che si arrivi a vertici di imbecillità mai prima raggiunti e dimostrazioni di ignoranza che si denuda oscena fra gli applausi. L'assessore al turismo di Mantova si è scagliato persino contro le celebrazioni di Virgilio, il poeta mantovano per eccellenza, arrivando a dire che era meglio onorare Teofilo Folengo perché il poeta dell'Eneide era un traditore:  "se n'è andato a Roma, in Calabria, infine a Napoli, dove è sepolto. Ci ha traditi".

Certo l'assessore Vincenzo Chizzini è un leghista e di conseguenza fa un po' di fatica a superare l'età mentale di 7 o 8 anni, le sue dichiarazioni sarebbero da accogliere con la simpatia che destano certe assurdità bambinesche, se non fosse che per dirle percepisce sui tre mila euro al mese, extra esclusi. Però non è che voglia perdere tempo a parlare di imbecilli perché è anche peggio che smacchiare leopardi. La cosa che mi interessa è che il ripudio di Virgilio, giustamente messo alla berlina da alcuni giornali, ha finito per rivelare una straordinaria abulia della conoscenza.

Onorare Folengo al posto del traditore Virgilio non è soltanto assurdo in sé, ma è anche ridicolo sullo stesso piano grottesco dell'assessore, cosa che tuttavia nessuno ha notato. Folengo infatti, lasciò Mantova nell'adolescenza senza mai farvi un ritorno stabile; per qualche anno tentò composizioni poetiche di imitazione virgiliana, senza ottenere alcun successo. Poi, spogliatosi dell'abito da monaco benedettino per Girolama Dieda, una donna piena di intraprendenza, cominciò a girare dappertutto, guadagnandosi la vita grazie alla sua capacità di improvvisatore in versi. E in questo suo mestiere di poeta da osteria, mise a frutto le impressioni e le suggestioni del'ambiente padovano e bolognese dove già c'era qualche esempio di stile "macaronico". Non avendo avuto successo nell'imitazione di Virgilio si mise a deformarlo versificando in un latino tutto intriso di italiano e in un italiano tutto tessuto sul latino. Nacquero così le Maccheronee diverse composizioni stampate sotto il nome di Merlin Coccaio o Limerno Pitocco. Il poema più noto di questa serie è il Baldus che narra le avventure e le disavventure del paladino Rinaldo, che singolarmente non ha parte nei cicli carolingi, ma è una figura che ha ispirato molto gli italiani dall'Ariosto al Tasso, forse per la sua farragine emotiva.

Comunque Folengo fu un uomo per così dire itinerante, una specie di zingaro  che trovò una relativa pace solo per un breve periodo a Venezia come precettore dei figli di Camillo Orsini, ma soprattutto in Sicilia dove si fermò per un buon numero di anni, finalmente rasserenato dalla benevolenza del vicerè e tranquillo dentro un monastero. Solo nel 1544 tornò la nord, vicino Bassano del Grappa dove morì lo stesso anno..
Dunque anche Folengo fu un traditore come Virgilio, come Virgilio scrisse prevalentemente in latino anche se nelle sue opere più famose lo mischiò ai vari volgari del nord. E come Virgilio visse pochissimo tempo a Mantova passando il tempo migliore della sua vita nel profondo sud.

Certo questo non può saperlo l'assessore Chizzini che - sono disposto a scommetterci qualunque cosa -  non è in grado di intendere una sola riga di Folengo. Però magari qualcun altro poteva accorgersi del fatto che anche l'autore delle Maccheronee era un traditore come Virgilio. Chissà forse Mantova non è una città per poeti, ma per assessori ignoranti come capre da qualche millennio. Ma ormai di fronte alle fesserie che sussurrano come vento tra le canne c'è quasi una rassegnazione, un atteggiamento passivo, una sorta di inquieta resa alla castroneria che non riesce nemmeno ad accendere la curiosità..

Per cui non mi rimane che dedicare all'assessore al turismo e all'intera giunta alcuni versi di Folengo, che nonostante tutto forse saranno in grado di intendere:


In lombardorum tandem venere pianum:
passant Milanum, Parmam, camposque resanos,
et cortesam urbem, quae Mantua dicitur, intrant,
Mantua mantois quondam fabricata diablis.
Tunc ea languebat sub iniquo pressa tyranno,
nomine Gaioffo poltrona e gente cagato.

domenica 30 ottobre 2011

Silvio e la Chiesa di cartapesta


Questo è uno dei bozzetti presentati per la prossima sfilata del carnevale di Viareggio. Berlusconi santo subito attorniato da vescovi  benedicenti e osannanti per motivi più che terreni. E' certamente l'idea più incisiva tra quelle presentate finora le quali navigano dentro una satira così ecumenica e blanda da essere reticente.
Ma insomma anche uno su 11 ci offre speranze per uno sguardo più libero, meno ansiosamente preoccupato di non nuocere troppo, Gli italiani si stanno svegliando e  stanno soprattutto spezzando le catene opprimenti dell'autocensura?
Magari, il bozzetto infatti è l'unico presentato da due francesi:  Gilbert Legibre e Corinne Roger, che pur abitando in Toscana, operano nel campo della scenografia e degli allestimenti in tutto il mondo. Purtroppo le nostre scenografie sono assai più modeste e invece di denunciare l'anacronismo delle santità comprate, si dedicano alla cartapesta della Leopolda.

sabato 29 ottobre 2011

Il Tiranno patrimoniale


di Anna Lombroso

Pertinente al Coglionario italiano de il Simplicissimus, ma ancora più adatta a una rubrica, “Sfrontatezze”, che rischierebbe però di diventare monotematica, la dichiarazione del presidente del consiglio di ieri può modernizzare il motto che Longanesi voleva apporre sulla bandiera: tengo famiglia. Lascerebbe se non pensasse al paese, alle aziende alla famiglia. Paese è un termine generico e se pensasse agli italiani forse invece farebbe il fatidico passo indietro.
Non ha parlato dello Stato o delle istituzioni, perché si sa che il termine aziende e famiglia per lui sono termini onnicomprensivi, e in fondo si tratta di sue proprietà.

C’è un famoso dialogo tra Senofonte tra Gerone I°, tiranno di Siracusa e il poeta Simonide riportato da Leo Strauss e Alexandre Kojève nel loro “Sulla Tirannide”, volumetto di Adelphi, molto istruttivo, proprio perché mette a confronto la vita dell'uomo pubblico e quella del cittadino comune e i rispettivi piaceri e i rispettivi dolori; la dipendenza del tiranno e l'indipendenza del saggio dall'ammirazione degli altri; il peso, per l'uno e per l'altro, dei piaceri del sesso e dei piaceri dell'onore; l'inquietudine e la paura che il tiranno prova per la saggezza e per la sua irriducibilità alla misura del potere.
Gerone dice: non ho nemmeno la possibilità di ritirarmi a vita privata, perché sarei inseguito da tutti coloro verso i quali ho commesso soprusi. Posso solo scegliere di sparire.

Si , anche le tirannidi non sono più quelle di una volta: rischiò di perdere il trono dopo due anni dalla successione ma lo salvò appunto il sostegno del poeta Simonide - non Bondi. Rifondò Catania – non Milano 2. Era un atleta e un mecenate: Eschilo, Pindaro – non Zanicchi o Apicella, trovarono ospitalità presso la sua corte e ne esaltarono le doti. Era succeduto al padre, che non è una garanzia, ma è meno ignobile che “scendere in campo” per fare affari e salvarsi dalla galera.
Mentre oggi chi viene eletto è sopra la legge, per restare nei classici assistiamo alla esaltazione della antitesi di Aristotele tra governo delle leggi e governo degli uomini, che fa sì che chi detiene il potere produca le leggi che gli fanno comodo. La differenza tra queste due concezioni di democrazia che oggi albergano, fronteggiandosi troppo poco, in Italia è che una corrisponde alla democrazia liberale – ed è una conquista delle due Rivoluzioni, francese e americana –; l’altra mira a una soluzione autocratica. Berlusconi non a caso si presterebbe solo a subire il giudizio dei ‘pari’: Lui può essere giudicato solo dagli eletti in Parlamento e non dai magistrati.

La cosiddetta anomalia italiana risiede anche nel superamento delle differenze tra "personalizzazione della politica" e "personalizzazione della leadership politica" (o "del potere" come ancor oggi alcuni preferiscono scrivere) che caratterizzava le democrazie a lungo incentrate nei partiti di massa quali soggetti collettivi della politica, come da noi.
Il tiranno nostrano ha accelerato e utilizzato l’indebolimento dei partiti e del rapporto fra elettori, parlamento e assemblee locali, autoproclamandosi nel generale silenzio complice, principale riferimento “personale”. Imprenditore di se stesso, ha vinto come persona, gestisce autonomamente la propria condotta di "rappresentante", avendo come vero riferimento non il partito ma la sua persona (valori, interessi) e, quindi, il suo elettorato che gli "appartiene" e che condiziona, compra, vende, in una opaca egemonia individualista che corrisponde bene alla personalizzazione della politica, e la nutre anche grazie all’occupazione della comunicazione e in particolare della tv.

Non facciamoci illusioni, grazie a questo processo che è anche di privatizzazione, ridono di lui ma ridono anche e soprattutto di noi che ci siamo fatti corrompere, che siamo diventati merce, che lo subiamo. Che gli lasciamo dire che lui è un leader preposto al governo in base alla fiducia popolare e che su questo equivoco ha basato il suo monocratico esercizio proprietario, il suo padronato, nel partito, nato come "partito del leader", ma nelle istituzioni pubbliche nello Stato, nelle regole costituzionali che manomette come fossero il suo azionariato. Dando concretezza alla profetica immagine di Weber di un governo del leader assistito da consiglieri, che dovremmo più propriamente chiamare “consigliori”.
Mai come oggi dobbiamo demistificare la legittimità del suo riferirsi al voto popolare.

La libertà delle elezioni per prima è opinabile. Non occorrono speciali strumenti interpretativi per dire che non si sono svolte su un terreno uniforme: Berlusconi è il rappresentante su scala mondiale di un ristretto gruppo di attori politici emergenti soprattutto dal settore delle comunicazioni, al servizio di una economia anch’essa sempre più immateriale, che hanno sfruttato le loro formidabili risorse finanziarie e mediatiche per distorcere e pilotare il processo democratico.
È un leader patrimoniale guidato unicamente da impulso all’accumulazione, ambizioni familiari e di gruppo, inossidabile convinzione del proprio valore.

Il conflitto o il concorso di interessi ha invaso il campo dello stato e del governo attraverso la politica e le istituzioni ibridando entrambe con misure economiche e finanziarie protette e finalizzate, con una dotazione illegittima di finanza e potenza comunicativa che moltiplica e ingigantisce il potenziale di controllo improprio, di consenso disuguale, di dominio privilegiato.
E i voti conquistati mediante l’imposizione esplicita ed assertiva di modelli di consumo e culturali, abbiamo il dovere di riprenderceli indietro come una merce guasta, come un bene contraffatto. E dobbiamo riprenderci anche i quattrini sottratti indebitamente all’interesse generale da lui e dai suoi alleati. E riprenderci la dignità e la cittadinanza, consegnandolo alla “sua” famiglia, perfino quella trattata in modo disuguale, alla giustizia vilipesa, al breve futuro che lo aspetta e che si merita peggiore del nostro che ha offeso e impoverito.

domenica 23 ottobre 2011

I cimiteri online: non fiori, ma una mail


di Margherita Nikolaevna 

A pochi mesi dalla morte – reale o immaginaria, comunque leggendaria – di Osama Bin Laden, le immagini dell’esecuzione di Gheddafi riaprono la questione della morte ai tempi di internet. Bando però alle riflessioni socio-antropologiche sulla crudezza del tirannicidio e sulla barbarie contagiosa che fatalmente lo determina, oltre che sulla nostra voluttà di guardare immagini orrende da cui derivi catartico orrore. Il fatto è, piuttosto, che - come in un film di Ingmar Bergman – la signora con la falce (a cui qualche maligno esponente dell’attuale maggioranza parlamentare associa anche il martello) è sbarcata in rete silenziosa e grottesca, trovando finalmente filo da torcere: perché sulla rete vita e morte si confondono, fino a smentire Pessoa quando diceva che i morti non possono essere visti.

Oggi tutto può essere visto. I maggiori cimiteri italiani hanno il loro sito web, variamente articolato secondo le caratteristiche peculiari dell’area di appartenenza geografica. A Palermo, dove Gogol e Pirandello si intrecciano, le salme che...richiedono la tumulazione dopo le ore 13 vengono condotte (in punizione?) al deposito: nulla di preoccupante, del resto, nella città in cui il 50 per cento dei posti auto è intestato ai defunti, che affrontano anche oltretomba l’inquietante problema del traffico e della puntualità.
Nell’efficientissima Torino, invece, il sito cimiteriale vanta il suo motore di ricerca dei trapassati per evitare inutili perdite di tempo a vivi sempre più frettolosi e tecnologici, pronti a cercare luoghi e loculi con lo smartphone.

Nella pragmatica Milano ci si preoccupa delle esigenze dei vivi, indicando nei vari settori l’ubicazione delle toilettes e precisando in modo crudelmente sublime che non esistono in zona telefoni pubblici.
Laddove però la morte sbarca in modo sorprendente è nel territorio dei social network, dove esistono pagine cui si può accedere – come utenti, per dir così, “registrati” – solo dopo il passaggio estremo. Le imprese che gestiscono questi siti parlano di un nuovo target da offrire alla clientela a scopi informativi e consolatori, a ulteriore conferma del momento infelice attraversato dall’intera categoria degli imprenditori negli ultimi anni.

Il necrologio online ripropone, oltretutto, i sempiterni dubbi semiseri sulla sua opportunità: al di là dell’uso di frasi pompose (tipo sic transit gloria mundi) o desolatamente banali, l’elogio funebre è un genere letterario assai insidioso. Da ragazzina ho ammirato per anni la pubblicazione dell’avviso dell’anniversario della dipartita del cavalier Felice Trapasso, immaginandolo come un uomo sollevato in vita dall’imponderabile problema del dopo. Adesso sbarca anche su internet la surreale frase “serenamente come visse, è deceduto”, che pone problemi ontologici di non poco conto: può essere la morte serena come la vita o non è piuttosto vero il suo contrario? In entrambi i casi, meglio porsi la domanda il più tardi possibile…

mercoledì 19 ottobre 2011

L'Arena del diavolo


di Anna Lombroso

Troppo facile dire che è colpa del Sindaco Tosi, peraltro inviso perfino al suo partito. Ma pare che Verona abbia il primato del numero degli esorcisti, necessari, secondo il più autorevole di loro, don Gino Oliosi, rettore di Santa Toscana e amico di don Luigi Giussani, per portare assistenza e aiuto a indemoniati e timorosi del maligno che proprio a Verona sembrano essere numerosi e in continua crescita. Pare che i cittadini veronesi, a detta della Curia, siano particolarmente esposti alla soggezione al demonio o a temerne il dominio.

Certo la paura circola in questo secolo minaccia di essere ancora più breve e carico di fermenti del precedente. Paura che all’inquietudine si aggiungano orrende mostruosità già sperimentate di quelle che la storia senza sorprese ci ripropone. La recessione ha coinvolto le economie nazionali si sta diffondendo come un virus e ha come vettore i flussi del capitale finanziario. Se è impossibile prevedere le coordinate della diffusione del «contagio», è invece accertato l’aumento dell’incertezza e della precarietà, che a loro volta alimentano la paura, il sentimento dominante nelle società capitaliste da quando il neoliberismo ha preso il posto del welfare state e si guarda al futuro come a un precipizio oscuro e non come a una promessa.
Se il Leviatano era che il necessario mostro posto a guardia del vivere in società, lo stato sociale doveva porre la società al riparo delle tendenze distruttive dell’economia di mercato. La pace alla fine della seconda guerra mondiale doveva segnare per il pingue Occiente il periodo in cui la paura viene «addomesticata», attraverso una relativa stabilità del lavoro, la possibilità di accedere a un servizio sanitario nazionale, e affrontare l’«autunno» della propria vita con relativa tranquillità grazie alla pensione programmando ragionevolmente il proprio domani. E doveva intervenire allorché impreviste contingenze - un terremoto, un’inondazione o altri disastri dovuti alle manipolazioni aberranti dell’uomo sulla natura potessero essere affrontate. Ultimamente sismi catastrofi nucleari in una sinistra coincidenza con l’erosione dello stato sociale e con l’impoverimento della coesione e della solidarietà, hanno scatenato i mostri dentro di noi, gli spettri della paura, dell’insicurezza, la dimensione effimera e pericolante della nostra esistenza, svelando tabu e evocando minacce e pericoli ancestrali.

La paura delle società opulente con la conseguente paralisi del «fare» è la mancanza di previsione sia che si tratti della perdita del lavoro che quella di una persona cara; o la corrosione dei privilegi, quando il fragile equilibrio conquistato o ereditato è messo a rischio dall’irruzione sorprendente di elementi o soggetti estranei, gli «stranieri», una presenza percepita come aliena e nemica; o l’inadeguatezza a fronteggiare gli effetti dell’azione umana sulla natura, che torna a mostrare il suo volto ferigno. Ma soprattutto la paura di aver paura con tutto il sinistro dizionario di voci, la tassonomia di sentimenti che si accompagnano ad essa: disincanto, cinismo, opportunismo, viltà, accidia e rancore.

La vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l’impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo e che riflettono le diseguaglianze sociali e di classe presenti nelle società. Le strategie di contenimento della paura si declinano a seconda dei livelli di reddito che seguono rigorose differenze di classe, e che alimentano a loro volta un’altra paura, quella di essere esclusi. Provocando un terrore sordo, quello generato dalla possibile e ignota minaccia al proprio stato di incolumità personale, che spiega il successo di messaggi lanciati dai movimenti politici su base religiosa o di quelli xenofobi e razzisti e che favorisce misure prescrittive, la subdola e accettata cancellazione dei diritti sociali della cittadinanza, ritenendo invece la protezione di fronte all’economia di mercato un fatto privato.

In una società che lascia uno spazio sempre più esteso a sistemi di controllo sociale, la paura è privatizzata. Mentre vengono demolite uno dopo l’altra le istituzioni del welfare state, gli strumenti per difendersi dall’incertezza e dalla precarietà vanno acquistati al mercato della protezione individuale: muri, chiodi acuminati che segnano i confini, tecnologie di sorveglianza mirate all’esclusione e alla relativa tranquillizzante reclusione, giochi di telecamere e nel quale il cittadino si perde nel suo isolamento, come in un labirinto di specchi che riflettono l’immagine di un uomo solo di fronte a se stesso.
E può darsi che sia per paura dei suoi demoni che preferisca il meno immateriale belzebù col il suo lezzo di zolfo, lo zoccolo caprino e quella coda che si mette dove non deve. Non sono bastate a esorcizzare i timori i respingimenti del sindaco, le panchine “dedicate” per escludere i diversi, le paccottiglie della pretesa superiorità. I veronesi si abbandonano alla più ancestrale e arcaica delle paure. A una possessione virtuale più terragna e primitiva di quella delle tarantate che tanto ha incantato da Levy Bruhl a Baladier da De Martino a Foucault, perché è la rappresentazione anzi l’agnizione dei nostri moderni dolori, del disagio della mente attraverso il corpo, lo sconfinamento dei veleni simbolici nei veleni inoculati.

Ecco non voglio dire che gli indemoniati di Verona siano necessariamente leghisti, ma certo rappresentano un altro aspetto dell’anomalia italiana se è vero che come dice Gabriele Amorth, il più celebre dei "ministri della consolazione", "in Germania, Svizzera, Austria e Portogallo non esistono gli esorcisti". Mentre a Verona c’è bisogno che esercitino la loro missione ben 13, molto richiesti per porre rimedio alle possessioni diaboliche o a altri disturbi di origine malefica. “Può trattarsi di semplice permissione di Dio, secondo Amorth, o la causa può essere data da un maleficio che si subisce: fattura, maledizione, malocchio. Si può cadere in mali malefici per il persistere di colpe gravi e multiple. E si espone al rischio di influenze malefiche o di possessione chi si rivolge a maghi, cartomanti, stregoni”. Ecco se è così tutto si tiene. C’è una spiegazione scientifica del maligno sortilegio che ha “incantato” il dolce territorio veronese. Si, serve proprio un bravo esorcista per liberarlo dal diavolo fuori e dentro di sé. E dai suoi stregoni.

martedì 18 ottobre 2011

Zanzotto, il ribelle gentile


di Anna Lombroso


Cenacolo a volte deriva davvero da cena e che cene e che cenacoli erano quelli. Nella cucina col fogher o in salotto, tanta gente, “foresti” o anche gente dei dintorni, della dolce ansa del Soligo, mossa e verde, entourage di Lacan, giovani enigmatici poeti ermetici parigini, sofisticati critici newyorchesi, qualche principe contadino del Montello, magari Neri Pozza che borbottava dentro al barbone o el dotor, ammesso solo a condizione che non impedisse agli ospiti de bevar e de magnar e la Marisa che si agitava portando piatti di funghi, taglieri di polenta e il montasio e l’asiago e il salame nostran, quelo con l’ajo, che fa ben e tine lontani quei folletti dispettosi che girano nella mezza montagna.

Grandi discussioni. Ci aveva rovinato la moda del Mozart, figurarse, tutti a comprare Marzemino e quanto Marzemino volete che si produca? Xe come il lardo de Colonnata, bofonchiava Neri. Le mode sono la rovina del mondo, tutto vogliono comprare tutto, bere tutto, mangiare tutto, andare dappertutto. Ma poi il mondo prima o poi si ribella, adirato ma sussurrante diceva Andrea, che della difesa di quel territorio così dolce e mansueto aveva fatto una sua guerra. Venezia si ribellerà: dea dei sostegni di chiese e palazzi dea dei tronchi che ci reggono saldi, dea delle onde.. l’aveva amata Venezia la schizzinosa senza le cautele di quelli di campagna, senza la risentita ribellione di quelli di terraferma. Ce l’aveva guidato per mano Diego Valeri nei suoi itinerari sentimentali, via per caligini da palude, dentro ale “fodre” quelle scorciatoie che allungano il cammino nel labirinto di calli, via via tra i muti alti finchè magnificamente e sorprendentemente sembrava che il cielo confinato si spalancasse su certe nuvole gonfie. Gli piaceva che gli raccontassi la leggenda di San Marco a Boccalama, una originaria Serenissima minacciata di sprofondare che gli abitanti provarono a salvare invano ancorandola a due barconi. Faceva i disegni dell’improbabile opera ingegneristica, altro che MOSE, le cime legate ai bragozzi con le belle vele latine colorate a tener su la città.

Andrea Zanzotto e Mario Luzi alla scoperta di Venezia
Non gli piaceva l’affondamento catartico auspicato dell’immaginario collettivo E non gli piaceva quel passaggio da metropoli dei luoghi e degli abitanti della letteratura a desiderata necropoli. Semmai gli piaceva la Venezia di Guardi, che riproduce il movimento,la gioia effimera profetica di morte dell’attimo fuggente, quelle moltitudini di persone, che in un brulicare, trasportate dall’istinto e dalla passione si riversano vacillanti in una delirante autodissoluzione ebbra e sconsiderata. Quelle figure che aveva rirovato nel Casanova di Fellini e che gli avevano ispirato quel “varda padrona questo stracci, questi bracci, guarda tra gli ori sti poveracci, tirati su datti da fare per farci fruttare, fruti dapartuto per tera e per mar”.

Come succede a quelli che sembrano destinati a morir giovani, sopravvissuti a sorelle e fratelli, quelli un po’ macilenti che per fortuna l’esercito non li vuole e hanno l’asma e la tosse e sono esili e hanno sempre freddo, mangiava frugalmente ma il cibo gli piaceva e gli piaceva la buona tavola e le ricette di venezia, l’agrodolce, l’uvetta, le spezie portate da lontano, la cipolla “svampia”, come nel saòr, messo a coprire le sarde o la verdura fritta, per mantenerle, così efficace che fu usato per conservare il corpo del vescovo di Torcello, destinato a essere sepolto in San Marco, per tutto il tempo in cui una tempesta rese impossibile il trasporto dall’isola. Così si faceva raccontare queste storie di cucina, cucine come quelle dell’ottuagenario, fumose, con la lecarda e lo spiedo, con lunghe cotture crudeli. È che gli piacevano le storie intorno al fuoco, anche quelle di paura, di fantasmi, le ombre inquietanti che si muovono come in Gogol e certi spettri dentro di noi come in Holderlin. Ma alla sua integra e giocosa innocenza piacevano le favole, le filastrocche, le nenie, oh le nenie soprattutto e magari l’avessero fatto addormentare lui sempre in guerra con l’insonnia, le rime impreviste e casuali, le cantilene anche le preghiere, il rosario recitato a mezza voce, al crepuscolo, anche il requiem che raccontava di salmodiare la sera sperando di prender sonno, come una cara memoria infantile.

Aveva sempre freddo Andrea, si teneva spesso il gatto, un gatto dei tanti che popolavano la sua vita, sulle ginocchia. Ne aveva amato uno spavaldo perché lo aveva ammansito con gli anni e persuaso a volte a stare raggomitolato vicino a lui. Si aveva freddo ma non gli ho mai visto un vero cappotto ma strati su strati di golf sulle spalle gracili, dei bei golf che immaginavi gli avessero confezionato le donne preziose della sua vita. Donne ridenti e determinate, dolci e tenaci, la zia fumatrice che gli aveva dischiuso le meraviglie della lettura cominciando dai fumetti, le sorelle perdute troppo presto, le maestre che gli avevano rivelato il sortilegio del teatro, la Marisa, compagna, musa, sostegno e isola, cuoca e segretaria, sempre teneramente affaccendata e vigile che oggi improvvisamente avrà un tremendo tempo libero e si guarderà intorno smarrita carezzando un gatto anche lui solo.

lunedì 17 ottobre 2011

Le preghiere "quotidiane"


di Anna Lombroso

A volte i nostri quotidiani sembrano il salotto della signorina Felicita. Oggi tra il rosolio e i fondant Ferruccio de Bortoli come un volonteroso chierichetto ci intrattiene sul ruolo dei cattolici nella nostra società.
Co la carne se frusta l’anima se giusta si dice dalle mie parti. E dopo Scalfari, giustificato dalla data di nascita, (Della Loggia è senza età) anche il direttore del corriere è investito da una senescenza virtuosa ancorchè accelerata. Così vuole fare proseliti della convinzione che per la ricostruzione civile e morale che non sarà possibile senza un diverso e rinnovato impegno politico dei cattolici. E senza un dialogo più stretto, fuori dagli schemi storici, dei cattolici con gli eredi delle tradizioni liberale e riformista.

Ecco io nutro invece la modesta convinzione che i cattolici di fronte alla società debbano prima di tutto rinnovare il loro impegno di cittadini, fuori dalle chiese e dai confessionali. Che non si deve manifestare solo o non soltanto prendendo le distanze dalle gerarchie ecclesiastiche conniventi con quelle plutocratiche. E non si tratta solo di esigere il pagamento dell’Ici o la condanna di comportamenti illegali oltre che immorali. Significa invece esercitare, anche loro, la laicità come componente irrinunciabile della democrazia, per esigere da se stessi e dagli altri il rispetto per la libertà di scelta, di espressione, di inclinazione, di vita e di morte, oltre che di credo.

Si non basta, quando c’è, una abiura dall’amoralità dei governanti - mai abbastanza pentiti benché assolti- o una condanna dei vizi privati diventati simpatiche e esplicite abitudini pubbliche, né tantomeno l’esercizio lodevole della carità e della beneficenza spesso sostituti non altrettanto desiderabili di accoglienza e equità. Si “esigerebbe” da cittadini tra altri cittadini, proprio da loro, così fortunati da rispondere a una autorità morale più identificabile del nostro personale arbitrio, che “esigano” il rispetto della dignità, le garanzie per diritti della persona, di tutela dall’illegalità che è sempre prevaricatrice sui più deboli.

Viene da chiederlo con più insistenza e proprio a loro perché vivono un privilegio, quello esaltato ed esibito di possedere e fare riferimento a un contesto morale innervato da principi di pietas oltre che di uguaglianza, di ascolto oltre che di compassione, di solidarietà oltre che di identità sociale. E per questo dovrebbero uscire dall’equivoco, rispondendo con criterio alla domanda di una società civile che sta perdendo l’orientamento, dando risposte civili e non confessionali. Un percorso faticoso certo, ma obbligatorio, soprattutto se grazie alla loro fede rivendicano una qualche “superiorità” .
La permanenza o il dichiarato ritorno della religione o delle religioni non ha portato con sé un significativo recupero di pratica confessionale di massa, ma piuttosto il moltiplicarsi di interventi anche mediatici delle autorità religiose. E non registra la diffusione o l’arricchimento della cultura religiosa ma una enfasi del soggettivismo religioso. Per questo l’impegno che si vorrebbe dai credenti è per un incremento del rispetto delle convinzioni e dei comportamenti dei laici quanto dei loro, pena un distacco sempre più profondo dalla vita e dai valori degli altri.

Nella vita democratica la discriminante fondamentale tra i cittadini non deve essere tra chi crede e chi non crede ma tra chi riconosce e garantisce la pluralità delle visioni e degli stili morali di vita e viceversa chi dichiarando intrattabili i propri valori impone una sua “cultura” e dei suoi principi, avvalendosi di una maggioranza parlamentare e auto qualificando un primato etico di capisaldi obbligatori. Di non negoziabili in democrazia ci sono solo i diritti fondamentali al primo posto dei quali si deve collocare la pluralità dei convincimenti. E quindi la libertà delle differenze.
Se ci deve essere il ethos comune deve essere quello della cittadinanza in regime di libertà: se non si deve essere indifferenti ai problemi della povertà, delle discriminazioni sociali, dell’immigrazione, non si deve essere insensibili a quelli delle unioni di fatto o omosessuali, della fecondazione assistita, dell’eutanasia. E non c’è credo altrettanto autorevole e forte che possa imporre una segmentazione dei diritti o peggio una loro gerarchia, per trasformare in norme di legge le sue indicazioni dottrinali.
De Bortoli cita Angelo Bagnasco, il presidente della Conferenza episcopale, che in previsione dell’incontro di oggi a Todi ha lanciato il suo slogan «Né indignati, né rassegnati», parlando della necessità di creare un «nuovo soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni».

E ricorda Roberto Cartocci quando che «la tradizione cattolica appare come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del Paese», aggiungendo da parte sua “ non solo: è portatrice di una cultura inclusiva, che non divide e frantuma la società”.
Si benevolmente fingo che una affermazione così spericolata sia da attribuire alla paura dell’inferno. Ma consiglierei un pellegrinaggio al divino amore, una bella camminata verso Santiago de Compostela o magari farsi prestare il cilicio dalla Binetti, piuttosto che una così perversa e aberrante mistificazione. Se, a secoli di distanza da crociate e inquisizione, ogni giorno l’invasività della chiesa occupa le nostre vite secolari, le nostre esistenze di laici, le nostre convinzioni di cittadini come se la molteplicità delle visioni della vita, le diverse concezioni del bene, o della natura umana fossero delle iatture, delle disgrazie pubbliche e degli attentati a un’etica obbligatoria, la loro.
I credenti protestano che non possono adagiarsi in un passivo rispetto dell’edificio di leggi e norme istituzionali e secolarizzate, perché l’impegno alla diffusione di quella verità di cui si sente testimone è costitutivo della sua identità. Ma i cittadini laici o credenti che siano non devono tollerare che la testimonianza evangelica occupi e impieghi strumentalmente gli apparati politici, istituzionali e giuridici, che diventano ostaggi gregari e condizionati. L’ethos comune consiste nella comunanza di regole condivise, nel confronto di convincimenti, in una libertà sempre rispettosa delle libertà altrui. E nella ricerca della felicità in terra cui sarebbe disumano rinunciare in vista della salvezza eterna. O no?

domenica 16 ottobre 2011

Eccezionale scoperta: lo Scajola di duemila anni fa

di Massimo Rispetto


Pietra miliare di origine romana scoperta da Alfredo Schiavi a Sanremo, all'altezza del civico 167 di Corso Mazzini. La strada segue fedelmente il percorso dell'antica via Aurelia e dunque il reperto potrebbe essere datato al II° secolo Avanti Cristo.
La scoperta è importante per l'eccezionale stato di conservazione del manufatto, ma anche molto curiosa perché le iscrizioni sembrerebbero fare riferimento ai nostri giorni: si evincerebbe che non soltanto i Romani conoscessero il chilometro, ma già sapessero dell'esistenza futura di Scajola.

Si tratta com'è ovvio di una strana coincidenza, ma solo di quella: gli archeologi che hanno esaminato il reperto, ritenendolo autentico, hanno tutt'altra tesi sulla scritta. Km non starebbe per chilometro, ma Kaementum (in una ortografia che risente del greco visto che nella zona abbondavano insediamenti attici e fenici): la parola ha il significato di pietra ed è dunque quasi certo che indicasse il numero di miliari poste dall'artigiano che le aveva realizzate. In questo caso tale Scajola (DA sta per dabat, consegnate, donate). Tuttavia l'importanza della scoperta è data proprio dal fatto che lo Scajola in questione non è uno dei tantissimi artigiani sconosciuti che hanno lasciato ai posteri la loro firma. Ma è stato un personaggio importante dell'antica Roma, arrivando alla carica di Pontifex Maximus qualche anno prima del 180 Avanti Cristo, quando sulla stessa "poltrona" si sedette Marco Emilio Lepido che, tanto per non farci mancare le coincidenze, da console cominciò la costruzione della Via Emilia.
Tito Marcio Scajola, questo l'intero nome, ebbe un cursus honorum travagliato non riuscendo ad arrivare alle massime cariche della Repubblica. Secondo le fonti, da Pontifex Maximus brigò per far assegnare a tale Fagus Anemonis la costruzione di un tempio a Giove, in cambio di un edificio appartenuto alla famiglia degli Scipioni. Nelle cronache di Tito Livio si dice che Marcio sostenne che la villa (forse situata nella zona dell'odierno Celio)  gli era stata consegnata "aliquo insciente" cioè a sua insaputa.
Ma non fu creduto, condannato per latrociniun e inviato in esilio proprio nella zona dove è stata ritrovata la pietra miliare.
Dopo la scoperta a opera di Alfredo Schiavi, un giornale locale ha titolato " Lo fa dal 200 Avanti Cristo". Claudio Scajola, non quello romano, ma quello attuale ha annunciato querela e dichiarato: "Non sono Marcio".                          

Il cavaliere dimezzato

di Margherita Nikolaevna 


Nei giorni dell’ultima acrobazia algebrico-politica del nostro premier, Google ha celebrato quello che sarebbe stato l’ottantottesimo compleanno di Italo Calvino. Il legame tra i due eventi, che potrebbe efficacemente rimandare al Cavaliere inesistente, è ancora più stretto di quanto si possa immaginare. “In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra”, scriveva Calvino nella più bella delle sue Lezioni americane, dedicata alla leggerezza. Non è forse ciò che sta accadendo in Italia? “Una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone o dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita”.

Siamo diventati minerali: premier inamovibile, parlamento paludoso, segretari di partito designati per investitura medievale, personaggi pubblici che non nascondono frequentazioni imbarazzanti trasformando i loro fatti illeciti in una crociata contro la magistratura deviata. Siamo apatici: vaccinati non solo contro le epidemie di stagione (come raccomandano alcune solerti testate giornalistiche), ma soprattutto contro il rinnovamento del tessuto civile, la rinascita dell’etica pubblica e la morte di una democrazia intesa come dialogo tra eguali. Si passa così dai suini virali ai porcelli elettorali, che hanno cristallizzato un Paese al quale non si può nemmeno staccare il sondino nasogastrico senza incorrere nelle ire della Cei.

Certo, la nostra Medusa non è proprio anguicrinita: ha crine posticcio e plastificato, dal cui tocco non si generano preziosi coralli ma solo sottosegretari (è il caso di dire) da riporto. Il suo volto dà l’idea di una pietrificazione siliconica, ben diversa da quella descritta dai poeti classici. La Gorgone moderna rinvia la decapitazione a colpi di voti di fiducia, giacendo in lettoni di fabbricazione ex sovietica dentro stanze molto affollate. Dal suo sangue non nasce Pegaso, ma solo Apicella.

 E se trovassimo anche noi un ritmo interiore picaresco e avventuroso per sconfiggere l’incantesimo della Medusa con un’energia rinnovatrice delicata e fresca? La pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario, perché la leggerezza e il peso sono due categorie antinomiche e contigue. Forse l’autore delle Città invisibili resterebbe turbato da questo paragone e da ciò che lo ha determinato, come da molte altre cose che il tempo gli ha risparmiato. In un altro passo celebre della stessa lezione Calvino afferma che “oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi”. Oggi Calvino scoprirebbe, probabilmente divertito, che i neutrini viaggiano in tunnel finanziati dallo Stato con 45 milioni di euro…
 ..
.

martedì 11 ottobre 2011

I condoni imperdonabili


di Anna Lombroso


Il governo più iniquo è anche il più bonario: condoni, pacificazione storica, perdonismo, assoluzioni senza processi nemmeno brevi. L’alleanza con la chiesa indica la strada dell’indulgenza: tre avemaria e un pagamento concordato e ' la paura dell’inferno, anche quello tributario.
Da che mondo è mondo d’altra parte potenze prepotenti, gerarchie intoccabili, arroganti plutocrati hanno lavorato intorno alla loro iniquità per darle una dimensione morale.

La crescita, l’abbondanza, l’accumulazione avrebbero bisogno di limiti sociali e etici. Il problema non sarebbe quello di porre limiti alla crescita ma di far crescere il senso dei limiti, sviluppare responsabilità e solidarietà rispetto all’invadenza del profitto. Peraltro anche senza istanze civili, il mercato e il potere, sempre al suo servizio, sapevano bene come fosse necessario tradurre in regole, precetti e azioni accettabili dai poveri, la loro cupidigia, la loro abbondanza e la loro esuberanza. E d’altra parte bisognava aggirare la diffidenza e il sospetto diffuso nei confronti dei mercanti considerati cattivi soggetti, ladroni e perturbatori dell’ordine sociale, dediti a raggiri e spregiudicate astuzie. È Weber che osserva come la comunità si proteggesse con la pietas dall’invasione disgregatrice della cupidigia .

E infatti l’equilibrismo più fantasioso e brillante del liberismo neoclassico è consistito nel tentativo di dimostrare che è perseguendo con determinazione il suo egoistico interesse che l’uomo economico produce il miglior risultato possibile in termini di benessere collettivo. E che si tratta di una condizione necessaria se non sufficiente per proteggere e mantenere il capitalismo. Come disse qualcuno, la pretesa di “buscar” l’oriente attraverso l’occidente o meglio ancora di perseguire la virtù attraverso il vizio.
Non occorre essere Marx o che ne so Polanyi per puntare il dito contro la colonizzazione mercatistica della società, contro la mercificazione e i suoi guasti sociali e morali, quando “le intelligenze si restringono, l’elevazione degli spiriti diventa impossibile, l’istruzione è disprezzata, lo spirito eroico è spento” (Adamo Smith).

La finanziarizzazione nella sua declinazione italiana ha fatto fare molti passi indietro, anche all’uomo economico: le intelligenze erano così ridotte che non potevano restringersi di più, gli spiriti talmente precipitati in un abisso da non poter essere riportati in superficie. Se prima si pensava che non era necessario che il capitalista fosse motivato da convinzioni morali ma bastava che si comportasse come se lo fosse, via via si è abbandonata anche questa educata rappresentazione. Si è cancellata quella zona franca costituita da una etichetta di regole, precetti, comportamenti e inibizioni, dando un riconoscimento come valore al cinismo, fino a esercitare un immoralismo talmente estremistico da attribuire virtù etica all’assoluzione preventiva dei misfatti.

Ha ragione il Simplicissimus il futuro sembra essere dei rottamatori che lo negano, dei fracassoni che sanno solo far rumore per riempire il vuoto di idee. Con le ideologie sono finiti principi, visioni, speranze se non quelle illusorie dell’affermazione e dell’accumulazione. alimentate nell’indifferenza per l’immobilismo e il ristagno dei redditi dei più mentre esplodevano quelli di pochissimi ma al tempo stesso nell’emersione illusoria di gratificazioni menzognere.
Si il disarmo morale del capitalismo “ tradizionale” contribuisce alla sua debolezza, e paradossalmente impoverisce tutti, con la pressione dei bilanci truccati, le società off shore, i derivati, l’immaterialità delle prenotazioni di risorse talmente future da non esserci. Ma ci impoverisce perché estrae da noi irresponsabili, miserabili interessi molto privati, antichi egoismi rivisitati, perché ci induce a rompere il piccolo salvadanaio per comprarci un brandello di impunità, per andare al mercato delle indulgenze anche prima di aver commesso il peccato, anche prima di aver tirato su il tramezzo, in modo da prevenire la tentazione dell’onestà.

domenica 9 ottobre 2011

Dancing in the rain of frogs


di Anna Lombroso

Alle prime note di " ed ho in mente te", il solista è stato preso da una struggimento.. come un groppo di nostalgia allegra. E avevano fatto Patti Smith e avevano fatto Cindy Lauper e avevano fatto Adele, ma quando ha cominciato ho in mente te a G. influente direttore generale di un ministero appena approdato a una dorata pensione precoce, si è spezzata la voce e le tre swingle singers, soul, rock e pop, due vigilesse e una hostess, gli sono andate in soccorso con armoniosa determinazione. Bravi, magari il chitarrista, alto funzionario della banca d’italia dovrebbe impegnarsi di più, ma su suo collega alla tastiera e su quello al basso non c’è niente da dire.
Ea la prima volta che si esibiva in pubblico la band, abituata a cantare nelle case di amici, ma da due anni provano almeno due volte alla settimana in un garage, che sotto le volte del capannone industriale, cattedrale dell’algido anonimato elevata in un paesaggio impersonale e spettrale di periferia - che sai che c’è ma ci arrivi solo col tom tom - aveva chiamato gli amici, quelli degli archivi di memorie condivise, dell’intimità. Quella confidenza che si compiace delle passioni degli affini e degli amati, quando si dispiegano e si esprimono e cosa c’è allora di meglio delle canzoni, canticchiate, stonate, che svegliano i ragazzini in noi e le nostalgie soprattutto quelle di qualcosa che non si è ancora avuto e si aspetta.
E infatti in giro sotto le volte grigie del capannone la facce erano domestiche, allegre e soddisfatte. Le facce gentili della gente per bene, del ceto medio operoso forse non felice, ma appagato e solido. Tanto da potersi infilare in un gilet di broccato e da cantare ho in mente te.
Una serata istruttiva per chi vorrebbe cantare ma ha poca voce. È bello veder circolare passioni allegre tra tante passioni tristi, tanto ripiegamento egoista, indifferente e solitario, che è poi quello che fa da humus per la sopraffazione e la tirannide.

Una serata istruttiva perché fino a non molto tempo fa probabilmente sarei uscita dal capannone e invece di canticchiare corazon espinado mi sarei chiesta perché stavano a suonare la batteria e a cantare quei connazionali soddisfatti, invece di andare con più profitto in sezione, al dibattito, all’ Arco della Pace per la manifestazione di Libertà e Giustizia, insomma a “partecipare”. Avrei elucubrato sulla disaffezione dalla democrazia, che come dice Montesquieu è una innamorata che stanca un po’ perché richiede impegno, fatica e invece noi cittadini siamo pigri e ci siamo abituati al benessere che induce e dimentichiamo di alimentarla. E pensiamo che le virtù politiche possano essere delegate a chi sta peggio, poveri,derelitti, emarginati, migranti, perché ne hanno più bisogno, come se noi avessimo acquisito e potessimo lasciare in eredità senza fatica solidarietà, legalità, civiltà, senza viverle e testimoniarle. Oggi i poveri sono più poveri e prima o poi la loro rabbia condannerà una classe dirigente riluttante a passare da qualsiasi cruna, che anzi ha comprato tutti gli aghi.

Ma è che io come tanti non consideriamo quella che è una larga larghissima zona grigia. Che noi consideriamo grigia perché esce poco allo scoperto, perché non la esploriamo, perché comunica poco e fa poche serate musicali e non va all’Arco della Pace, un’altra Italia insomma anche rispetto a quelli che rivendicano di esserlo ma che hanno facoltà di dare “pubblicità” alla loro diversità. Alla quale ho spesso guardato con un po’ di spocchia per non saper riconoscere che ci sono appunto forme di piccola quotidiana resistenza “altra”, quella al conformismo che è perfino musicale, che combatte contro il proibizionismo della bellezza e della conoscenza, prima che Mozart e Roth ma anche Jay Z e perfino il nuovo Nobel si debbano ascoltare in clandestinità come Radio Londra prima di Ferrara.

Si in modo molto manicheo spesso ci siamo abituati a pensare che di fronte a un potere che declina su scala locale con qualche estremizzazione anomala, quello globale, che vuole decidere del presente e del futuro di tutto e di tutti, spossessati di ogni capacità di comprensione e decisione, disillusi e stanchi di affannarci sulla cosa pubblica, abbiamo solo una strade: il silenzio, il mimetismo, la rinuncia a ogni pretesa di dire.
Invece pare che ci sia un’altra strada, il chinarsi come il giunco al vento. Una ostinazione senza illusioni che non è detto sia rinuncia, respingendo i diktat morali, sociali e culturali del sistema, del mercato che condiziona e produce idee e comportamenti con la sua offerta prepotente di consumo e consenso, ma che silenziosamente vive, senza una vera visione o un’analisi, ma resiste. E che forse si rifa anche inconsapevolmente a un mito non eroico ma arduo come un’utopia quello del Buongoverno, di una armoniosa combinazione di gestione della cosa pubblica e di quella privata secondo principi di responsabilità senso del dovere, solidarietà e buon vivere.

Come molti vorrei qualcosa di più potente, probabilmente una elite più visibile e espressiva. Capace di combattere ad armi pari con un sistema di relazioni che ha come madre la potenza sopraffattrice, nei rapporti tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all'interno delle nazioni. L'uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell'agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
Ma in realtà se la politica oggi sembra essere violenza e prepotenza, abbiamo bisogno di
concezione opposta quella espressa in una frase di Aristotele: «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale. Propria di coloro “ che amano stare con le altre persone, non sopra, nemmeno accanto o, peggio, altrove “. Quella che vive di reciproca fiducia e del ragionare insieme.

È probabile, senza retorica che la società civile esista e resista. Come l'insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi, perfino delle band, di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l'utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Forse bisogna cominciare a sentire la loro canzone e fare musica con loro.

venerdì 7 ottobre 2011

La rivoluzione degli spinaci

di Alberto Capece Minutolo


Il manifesto di Boycott industrial food
Uno dei fondamenti della civiltà o inciviltà mediatica è la trasformazione retorica del banale e ovvio interesse materiale in qualcosa che sembri appartnere a un mondo diverso, quello della progetttualità, delle idee, dei valori o, mal che vada, a quello di una proterva assertività che colpisce e funziona proprio per  contrasto con l'evidenza. Quest'ultima è la modalità più rozza, sfiora l'imbonizione, ha una sua efficacia solo se è reiterata spesso in qualche forma, partecipa della natura della pubblicità. E non è un caso se negli ultimi anni abbiamo dovuto sopportare l'aggettivo "storico" attribuito cose di nessun valore. Del resto non ci si poteva attendere altro da un regime mediatico che sceglie l'esaltazione piuttosto che una impossibile persuasione.
Se però qui il gioco é volutamente scoperto, anche se non sempre resistibile, ci sono molti casi in cui si tenta davvero di nascondere il piccolo o grande mercato dietro una cortina di valori, persino di istanze sociali, di trasformare il movente economico tra le note a margine. E se questo può indignare nel discorso politico, finanziario, religioso, assume un carattere irresistibilmente comico quando è applicato ad altro, ad esempio la cucina.
Gualtiero Marchesi il cuoco dello raviolo aperto e del risotto sfoglia d'oro, si è dedicato a più modeste ricette, ma forse molto lucrose: la creazione di due hamburger e un dessert al cucchiaio per McDonalds. Certo non c'è nulla di male e anche io, se mi pagassero adeguatamente, avrei da suggerire uno strepitoso pane e salame.
RicetteRivoluzioni urbi et orbi
Ma non sia mai che Marchesi possa essere sospettato di far qualcosa di semplice, pevsino di volgave, solo dietro compenso. No di certo: dietro ci sono ben altre motivazioni che allargano il cuore e lo spirito.
Anzi a sentire lo stesso chef occorrerebbe aggiungere alcune righe alla Genesi che disgraziatamente non contempla questa potente creazione dell'hamburger. E dire che se ci fosse stato già il Marchesi burger quei due sciamannati di Adamo ed Eva, di certo non avrebbero toccato una mela nemmeno di striscio.
Ma lasciamo al cuoco medesimo descrivere l'opera sua: "Se è vero che l'alta cucina ha determinato una rivoluzione del gusto a tavola, ora è tempo di portare questo cambiamento a tutti, partendo, ovviamente, dai più giovani. La vera notizia è che proponendo le ricette per questi due panini ho aperto le porte del regno degli hamburger alle melanzane e agli spinaci. Se non è rivoluzione questa!"


Oddio polpette e spinaci oppure melanzane non sono accostamenti inediti, ma evidentemente le porte del Regno non erano ancora aperte, ci voleva Marchesi circonfuso di luce per spalancare questa straordinarie possibilità. E la cosa ha fatto rumore: persino il sociologo Bauman vorrebbe scrivere qualcosa sul fatto che dopotutto qualcosa di solido è rimasto nella nostra società liquida, soprattutto le melanzane. E si dice stia preparando un intervento per la riunione annuale dei cuochi dei Carpazi orientali sulla "Società del Maalox" .

Per non parlare del poeta svedese,Tomas Tranströmer, recentissimo nobel per la letteratura che ha già scritto dei versi su questi due panini di Marchesi:
"Una polpetta verde in piatti vuoti. 
Un borbottio di pancia che diffonde silenzio.
Un ristorante che ricresce a ogni boccone. 
Un panino che puoi mangiare solo se non c'è".


E qui mica parliamo della guida Michelin, la cultura non è acqua, anzi non è bicchiere, forse non è effervescente: insomma mi avete capito. Qui siamo alla rivoluzione.Anche se i peperoni piangono.

lunedì 3 ottobre 2011

Venezia, l'acqua alta dei turisti

di miss Apple


Direte che son una marantega (strega, nota di traduttore), ma io ieri anche se era domenica sono andata in giro con il carrello della spesa. No’ per far esercizio, noialtre veneziane siamo brave lo tiriamo su e zo per i ponti piova o bel tempo e quando il carneval gera carneval si vedevano signore in maschera e bauta col caretto che spuntava la cicoria come un mazzo di fiori.

No el carretto lo portavo per darlo sui pie dei foresti (stranieri, nota di traduttore). Perché Venezia sarà stata la città dell’accoglienza, un melting pot come dice la gente di cultura, pronta a ricevere, per il suo interesse se sa ma anche per curiosità, perché tutti passavano di qua e lasciavano qualcosa, arte, roba bona da magnar, stoffe, spezie, libri e un pochetto de cuor, quello si perché che veniva qua poi sta città se la portava nell’anima. Ma adesso è un teatro di odio, i veneziani odiano i foresti e i foresti odiano gli indigeni.
 E’ stato un weekend terribile: un’invasione di migliaia di turisti, un impressionante numero di persone che girovagavano, quasi senza meta, intasando calli, campi, vaporetti.

Questo progetto di rendere Venezia una città per soli turisti, una Disneyland o una Las Vegas con pochi locali come comparse al cine, a me, a noialtri non piace. Per carità ammetto di non aver a che fare col turismo: turisti o non turisti io vivo lo stesso, ma il punto non è il mio guadagno turisti free, il punto è voler bene alla città che mi ha visto nascere e crescere: giocavo in campo, in riva degli schiavoni, andavo per passeggiate a san marco, a veder i siori che magna el geato al todaro, in Mercerie a vedere le vetrine con le amiche, a san Bortoeo a veder i fioi fighi e in campo San Stefano (a Venessia xè San Stefano no Santo Stefano) a veder i fioi ricchi. Era divertente crescere in una città che tutti consideravano quasi un sogno.
 Ho anche conosciuto il fenomeno turismo, durante la mia infanzia, la mia adolescenza, a noi ragazze non ci infastidiva, non era un turismo invadente, era giusto, quello che rompeva la routine della venezianità, un'invasione pacifica di persone che vedendo venezia vedevano una città e non un parco giochi. .
 Era un sogno e era un privilegio. Adesso è un incubo e una punizione.

Non penso venezia senza turisti, io desidero venezia con meno turisti! E con turisti educati, che non vol dir che i sta in ponta de piron (in punta di forchetta, nota di traduttore). Vuol dire che se vengono qua devono rispettare una città fragile, delicata anche se ne ha viste tante. E invece per lo più vengono da invasori, da barbari, arrivano già stanchi in grossi pullman, sono spaesati si domandano perché non possono star sentai comodi sul torpedone e guardarsi da là fora dal finestrin la piazza i piccioni e el campanil.

 Per quello gli volevo dar el caretto sui piedi perché stanno là fermi spaesati confusi e noi li odiamo come loro odiano noi. Quando sono nata eravamo 110 mila residenti in centro storico, ora siamo meno di 60 000, la città sta morendo, è data in pasto al turismo selvaggio. E il peggiore è quello delle crociere di lusso, prepotenti e invadenti: sette navi in città significa avere più di 20 mila persone in giro per la città, senza dir dell’inquinamento anche visivo, perché è un’offesa veder quei condomini coprire quella delicatezza di san giorgio in bacino e entrar dentro allo stomaco della città.

 Ieri ho litigato con un paio di turiste, mi hanno detto che me ne devo andare da Venezia se non mi piacciono i turisti, che Venezia vive col turismo e che è in vigore la libera circolazione. Che tutti hanno diritto di andare dappertutto e godere della bellezza, che non ne siamo padroni e in fondo l’abbiamo ereditata come loro. Ma come fa a piacere anche a loro una città invasa, brutalizzata, sporca, dove tutti sono ospiti sgraditi.
Ecco una veneziana e altri veneziani come me viviamo in regime di carcerazione, in nome della libera circolazione, di speculatori e di un’amministrazione più attenta ai soldi che ai propri elettori. Ma anche vittime noi e i foresti dell’idea che le robe belle sono un bene di consumo per tutti. E che è come l’acqua, che alla fine non “si consuma” mai anche se ci vai con gli scarponi o gli zoccoli sui masegni, se butti i sacchetti in Canal, se respiri sui mosaici fino a appannarli per sempre. Se è un bene, ecco xe un “bene comune” come l’acqua e come l’acqua si sporca si inquina e la dobbiamo salvare per noi e per quelli che vegnara', no?

sabato 1 ottobre 2011

Viva Barbarossa

di Alberto Capece Minutolo

Lo confesso: fin da bambino, sui banchi delle elementari, partecipavo poco all'afflato che le maestre cercavano di inculcarmi sull'epopea dei Comuni e sulla loro lotta contro l'impero. Un po' forse per ataviche vicende familiari e un po' perché disponendo di una buona libreria casalinga avevo appreso che la celeberrima battaglia di Legnano gli uomini della Lega Lombarda erano assai più del doppio degli imperiali e tuttavia stavano perdendo: solo l'imprudenza di Barbarossa, che si gettò in mezzo alla mischia, finendo disarcionato, creò sgomento fra le sue truppe che perciò si dispersero facendo arridere la vittoria ai milanesi.
Così da allora e nonostante le poesie patriottiche che mi venivano inflitte, Alberto da Giussano cominciò a starmi antipatico. Non che fosse un'ossessione, ma ogni giorno passavo davanti a un altro capitolo di quella lunga lotta, davanti a Palazzo Re Enzo, chiamato così perché vi fu tenuto prigioniero Enzo, figlio dell'imperatore Federico II di Svevia, catturato durante la Battaglia di Fossalta nei pressi di Modena.

Allora queste vicende venivano presentate come una specie di prodromo e di anticipazione del Risorgimento, anche se nella mia testa infantile continuavano a chiedermi perché mai questi eroi con i loro spadoni volessero unirsi contro lo Straniero ( si diceva così prima che si inventasse la parola extracomunitari che ne ha recuperato un po' il senso, ma soprattutto il ridicolo) per poi continuare a far parte di borghi e città fortificate con relativi contadi e lande separate se non ostili. Ma erano tempi quelli in cui si portava in classe l'obolo per la  Croce Rossa senza alcun sospetto che potesse essere rapinato dalla famiglia Letta e ricordo che ebbi delle crisi di coscienza perché un anno parte del contributo umanitario finì in un godurioso e irresistibile ciokorì. Insomma non era concepibile che ti dicessero qualcosa di non vero, che ti depistassero, che forzassero le cose. Del resto 2 più 2 faceva effettivamente 4 e io per analogia attribuivo questa magica proprietà intransitiva della verità ad ogni cosa  di cui le maestre parlavano.

Tutto questo mi è tornato alla mente con un sussulto di incredulità quando da adulto ho assistito alla nascita della Lega, alla creazione del simbolo con Alberto da Giussano e all'invenzione della Padania. Nel frattempo avevo appreso altre cose e cioè che i Comuni si ribellavano a Barbarossa non tanto per non pagare qualche obolo, ma principalmente perché volevano estorcere al Sacro romano impero il diritto di dichiararsi guerra fra di loro, di bastonarsi e fare razzie senza nessuno intervenisse come arbitro. In questo modo il simbolo con lo spadone del mio omonimo da Giussano, contraddiceva l'essenza stessa della Padania, anche se non un logica tutta italiana per cui ci si alleava al fine di potersi dichiarare nemici.

E c'è di più: questa ribellione in nome di una sorta di anarchia localistica, di campanile e di feroci interessi contrapposti  contraddiceva l'idea dell'impero come luogo dell'universalità civile, la rinnegava in favore di quella che Dante nel De Monarchia chiama concezione ierocratica del potere elaborata dalla Chiesa, la quale troverà la sua solenne e finale affermazione con la bolla papale Unam Sanctam del 1302. Una concezione che sul piano politico si traduceva nella ricerca della divisione, nel tentativo di impedire la nascita di realtà troppo forti, nel fomentare gli interessi locali e di parte contro l'idea della  ricerca della felicità terrena (Dante anticipa di parecchi secoli la costituzione americana con questa espressione) che è invece lo scopo del Sacro romano impero, erede della globalità e universalità di quello romano. Certo i termini della questione vanno inquadrati nel mondo feudale, ma la sostanza è chiara: nelle divisioni, si esprime un potere grettamente teso a interessi immediati, si esprimono gli egoismi di parte, in quello imperale la possibilità di  un' armonia universale.

Paradossalmente la Lega ha scelto eroi ed epopee in totale contrasto con l'idea stessa di un'unità padana che infatti non si è mai realizzata, anzi ha conosciuto le più profonde divisioni, ma di quegli eventi ha scelto come propria mentalità fondante non le libertà comunali che non coincidevano affatto con la libertà dei cittadini, semmai con la legge delle oligarchie dominanti, ma quella dei piccoli egoismi di parte, la meschinità della chiusura localistica, l'esclusione sistematica del "forestiero" e la tradizione simil ierocratica, ormai automatica e fasulla come collante. E poco importa se a tessitori e vasai chiusi dentro le loro corporazioni si sono sostituite le partite iva e le microaziende familiari: il medioevo è lo stesso.

Ecco perché dico viva Barbarossa.