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sabato 29 ottobre 2011

Il Tiranno patrimoniale


di Anna Lombroso

Pertinente al Coglionario italiano de il Simplicissimus, ma ancora più adatta a una rubrica, “Sfrontatezze”, che rischierebbe però di diventare monotematica, la dichiarazione del presidente del consiglio di ieri può modernizzare il motto che Longanesi voleva apporre sulla bandiera: tengo famiglia. Lascerebbe se non pensasse al paese, alle aziende alla famiglia. Paese è un termine generico e se pensasse agli italiani forse invece farebbe il fatidico passo indietro.
Non ha parlato dello Stato o delle istituzioni, perché si sa che il termine aziende e famiglia per lui sono termini onnicomprensivi, e in fondo si tratta di sue proprietà.

C’è un famoso dialogo tra Senofonte tra Gerone I°, tiranno di Siracusa e il poeta Simonide riportato da Leo Strauss e Alexandre Kojève nel loro “Sulla Tirannide”, volumetto di Adelphi, molto istruttivo, proprio perché mette a confronto la vita dell'uomo pubblico e quella del cittadino comune e i rispettivi piaceri e i rispettivi dolori; la dipendenza del tiranno e l'indipendenza del saggio dall'ammirazione degli altri; il peso, per l'uno e per l'altro, dei piaceri del sesso e dei piaceri dell'onore; l'inquietudine e la paura che il tiranno prova per la saggezza e per la sua irriducibilità alla misura del potere.
Gerone dice: non ho nemmeno la possibilità di ritirarmi a vita privata, perché sarei inseguito da tutti coloro verso i quali ho commesso soprusi. Posso solo scegliere di sparire.

Si , anche le tirannidi non sono più quelle di una volta: rischiò di perdere il trono dopo due anni dalla successione ma lo salvò appunto il sostegno del poeta Simonide - non Bondi. Rifondò Catania – non Milano 2. Era un atleta e un mecenate: Eschilo, Pindaro – non Zanicchi o Apicella, trovarono ospitalità presso la sua corte e ne esaltarono le doti. Era succeduto al padre, che non è una garanzia, ma è meno ignobile che “scendere in campo” per fare affari e salvarsi dalla galera.
Mentre oggi chi viene eletto è sopra la legge, per restare nei classici assistiamo alla esaltazione della antitesi di Aristotele tra governo delle leggi e governo degli uomini, che fa sì che chi detiene il potere produca le leggi che gli fanno comodo. La differenza tra queste due concezioni di democrazia che oggi albergano, fronteggiandosi troppo poco, in Italia è che una corrisponde alla democrazia liberale – ed è una conquista delle due Rivoluzioni, francese e americana –; l’altra mira a una soluzione autocratica. Berlusconi non a caso si presterebbe solo a subire il giudizio dei ‘pari’: Lui può essere giudicato solo dagli eletti in Parlamento e non dai magistrati.

La cosiddetta anomalia italiana risiede anche nel superamento delle differenze tra "personalizzazione della politica" e "personalizzazione della leadership politica" (o "del potere" come ancor oggi alcuni preferiscono scrivere) che caratterizzava le democrazie a lungo incentrate nei partiti di massa quali soggetti collettivi della politica, come da noi.
Il tiranno nostrano ha accelerato e utilizzato l’indebolimento dei partiti e del rapporto fra elettori, parlamento e assemblee locali, autoproclamandosi nel generale silenzio complice, principale riferimento “personale”. Imprenditore di se stesso, ha vinto come persona, gestisce autonomamente la propria condotta di "rappresentante", avendo come vero riferimento non il partito ma la sua persona (valori, interessi) e, quindi, il suo elettorato che gli "appartiene" e che condiziona, compra, vende, in una opaca egemonia individualista che corrisponde bene alla personalizzazione della politica, e la nutre anche grazie all’occupazione della comunicazione e in particolare della tv.

Non facciamoci illusioni, grazie a questo processo che è anche di privatizzazione, ridono di lui ma ridono anche e soprattutto di noi che ci siamo fatti corrompere, che siamo diventati merce, che lo subiamo. Che gli lasciamo dire che lui è un leader preposto al governo in base alla fiducia popolare e che su questo equivoco ha basato il suo monocratico esercizio proprietario, il suo padronato, nel partito, nato come "partito del leader", ma nelle istituzioni pubbliche nello Stato, nelle regole costituzionali che manomette come fossero il suo azionariato. Dando concretezza alla profetica immagine di Weber di un governo del leader assistito da consiglieri, che dovremmo più propriamente chiamare “consigliori”.
Mai come oggi dobbiamo demistificare la legittimità del suo riferirsi al voto popolare.

La libertà delle elezioni per prima è opinabile. Non occorrono speciali strumenti interpretativi per dire che non si sono svolte su un terreno uniforme: Berlusconi è il rappresentante su scala mondiale di un ristretto gruppo di attori politici emergenti soprattutto dal settore delle comunicazioni, al servizio di una economia anch’essa sempre più immateriale, che hanno sfruttato le loro formidabili risorse finanziarie e mediatiche per distorcere e pilotare il processo democratico.
È un leader patrimoniale guidato unicamente da impulso all’accumulazione, ambizioni familiari e di gruppo, inossidabile convinzione del proprio valore.

Il conflitto o il concorso di interessi ha invaso il campo dello stato e del governo attraverso la politica e le istituzioni ibridando entrambe con misure economiche e finanziarie protette e finalizzate, con una dotazione illegittima di finanza e potenza comunicativa che moltiplica e ingigantisce il potenziale di controllo improprio, di consenso disuguale, di dominio privilegiato.
E i voti conquistati mediante l’imposizione esplicita ed assertiva di modelli di consumo e culturali, abbiamo il dovere di riprenderceli indietro come una merce guasta, come un bene contraffatto. E dobbiamo riprenderci anche i quattrini sottratti indebitamente all’interesse generale da lui e dai suoi alleati. E riprenderci la dignità e la cittadinanza, consegnandolo alla “sua” famiglia, perfino quella trattata in modo disuguale, alla giustizia vilipesa, al breve futuro che lo aspetta e che si merita peggiore del nostro che ha offeso e impoverito.

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