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giovedì 26 gennaio 2012

L'economia che bara: il falso Nobel

di Alberto Capece Minutolo


Alle volte rimaniamo stupiti del fatto che gli economisti non riescano a prevedere le crisi, né a raccapezzarsi sugli strumenti da usare per farvi fronte e che vengano colti di sorpresa dall'irrompere di nuovi protagonisti dell'economia la cui crescita impetuosa è stata favorita proprio dalle loro ricette. In realtà la sorpresa è dovuta a un radicato pregiudizio che su fronti diversi e con diversi significati, si è affermato nel XX° secolo: che l'economia sia una scienza e come quella sia esatta e predittiva.
Niente di più sbagliato, l'economia è una branca della sociologia e più in generale delle scienze umane: può servirsi di strumenti rigorosi, e fa un uso abbondante, anzi un abuso della matematica, ma le sue possibilità euristiche, vale a dire di conoscenza reale ed efficace, dunque di predizione si limitano alle questioni più elementari o a quelle apparentemente complicatissime della modellazione matematica di flussi di borsa, che tuttavia non sono altro che un assemblaggio di problemi semplici. Inoltre i principi, diciamo le teorie che guidano tutto questo, non sono falsicabili, dunque sono frutto di speculazioni - e qui il termine ci sta a puntino - la cui consistenza è indimostrabile. Certo questi teoremi possono basarsi su linee di tendenza, possono avere una maggiore o minore coerenza con realtà fattuale, ma rimangono pur sempre delle metafisiche minori che tendono ad autoaccreditarsi.

L'origine di questo discorso nasce da una singolare occasione: il disconoscimento da parte di Peter Nobel, discendente di Alfred, del premio dato agli economisti. L'avvocato Peter non vuole che il prestigioso marchio venga attribuito a studiosi di questa discplina, visto che il suo avo lo aveva previsto solo per le scienze sperimentali come chimica e fisica, per la medicina, per la letteratura e per la pace. Il Nobel per l'economia è in realtà solo un premio istituito nel 1969 dalla Banca di Svezia con una dicitura un po' truffaldina: "premio in scienze economiche della banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel". Insomma una specie di furto che ha portato a parlare di Nobel per l'economia, quando invece si tratta del riconoscimento istituito da una banca. Come di dire, se la cantano e se la suonano da soli.

La presa di posizione di Peter Nobel va però oltre la subdola violazione del marchio di famiglia e la proposta di conferire il riconoscimento in un giorno diverso da quello degli altri. Esprime anche un disagio culturale: "Ma qualcosa deve essere sbagliato quando tutti i premi per l’economia tranne due sono stati dati a economisti occidentali, le cui ricerche e conclusioni sono basate sul corso degli eventi in quei paesi, e sotto la loro stessa influenza. Posso immaginare i commenti sarcastici di Alfred Nobel se fosse in grado di sentire di questi vincitori. Soprattutto, aveva desiderato che i suoi premi fossero consegnati a coloro che sono stati più utili per l’umanità, tutta l’umanità!”
E l'Accademia di Svezia, in maggioranza gli dà ragione aggiungendo altre e più pesanti affermazioni: " La banca svedese ha messo un uovo nel nido di un altro uccello  e ha pertanto violato il  marchio di Nobel. Due terzi dei premi della Banca in economia sono andati a economisti americani della Scuola di Chicago che creano modelli matematici per speculare sui mercati azionari e delle opzioni – l’opposto degli scopi di Alfred Nobel per migliorare la condizione umana”.

Ed è qui che ci ricolleghiamo al discorso dell'economia come scienza: il ricorso sempre più frequente alla modellazione matematica non solo è più gradita negli ambienti accademici e alle pubblicazioni che vi fanno riferimento, ma svelano un meccanismo freudiano di auto convincimento nella scientificità della disciplina e il desiderio di radicare anche all'esterno questa convinzione. Soprattutto un profano può essere colpito da questo apparato e intimidirsi di fronte alla complessità di un sapere così rigoroso. Tuttavia non c'è nulla di più sbagliato: posso modellare matematicamente un asino che vola o i collegamenti cerebrali degli Isnut  di Glistra, pianeta della galassia di Andromeda, senza alcun bisogno che questi oggetti esistano realmente. Posso anche fare un modello matematico che descrive il mio alzarmi dalla poltrona per andare a far pipì senza che esista una scienza della minzione.
Quest'ultimo caso è il più interessante: se dovessi creare un modello matematico che descriva ogni millimetro del mio movimento verso il bagno e tutto il resto, comprese le reazioni chimiche  che si svolgono nelle fibre muscolari e in tutto il complesso fisiologico, avrei bisogno di tante equazioni che un supercalcolatore diventerebbe vecchio prima di sputare tutte le soluzioni. Quindi la mia fatica matematica, dovrà essere semplificata ed essere un sommario modello astratto. Esattamente ciò che non funziona con il comportamento umano e oserei dire in generale con i comportamenti biologici che implicano sempre qualche imprevedibilità. Quindi mi è impossibile prevedere il fatto che possa scivolare prima di raggiungere il bagno, che possa avere un calcolo che mi rende difficile la minzione, che non riesca a trattenerla e altre infinite ipotesi. La mia modellazione si attiene alla mia teoria di base che parte dall'osservazione statistica: dopo un'ora passata in poltrona gli esseri umani fanno pipì.
Non è un esempio fatto a caso:  certe modellazioni dal campo economico abbiano cominciato ad essere usate per la descrizione di qualsiasi comportamento o modo di essere. E' chiaro che in questo compito l'apparato matematico cerca solo di coprire e nobilitare pregiudizi grossolani o vaghe ideologie di fondo.

Il fatto è che i comportamenti umani sono troppo complessi, per essere ingabbiati in modelli semplicistici che cercano la reductio ad unum e la generalizzazione di interazioni complicatissime e variabili. Per cui la matematica sfornata a piene mani è spesso non un vestito, ma uno schermo per nascondere un fatto evidente: che le teorie economiche sono pensiero politico che si presenta sotto le spoglie di un'analisi rigorosa dei rapporti di produzione e di scambio.

Questo è dimostrato anche dalle antinomie  a cui i principi della sedicente scienza economica hanno portato. Gli economisti classici da Smith e Ricardo  a Marx pensavano che il valore dei beni derivasse dalla quantità di lavoro incorporata in essi. Eppure questo presupposto di base  portò da un lato a posizioni di liberismo economico e a un modello di destra imperniato, come al solito, sulla eternizzazioni di rapporti storici,  dall'altro alla radicalità invece del materialismo dialettico e al comunismo. Più tardi con l'economia neoclassica o marginalista si ritenne che la fonte del valore fosse l'utilità di un bene per ciascun individuo: si tratta di una sorta di una modellazione intellettuale per eliminare il dualismo tra valore di scambio e valore d'uso e  dare una base sistematica oltre che di calcolo alla teoria del valore. Tuttavia essa covava in sé molti fenomeni del mondo moderno, dall'atomizzazione della società, all'edonismo, dall'arroganza dell'offerta e dei grandi complessi industriali e di potere. Il marginalismo nasce come una sorta di espediente intellettuale  (è nata allora la matematizzazione dell'economia) che riflette i cambiamenti portati dalla crescita industriale e dalle pressioni rivoluzionarie: il valore di un bene non è più determinato dal lavoro incorporato in esso, ma è il valore di un bene sul mercato che determina il costo del lavoro. Ecco ciò che si vuole dire quando si osserva che il lavoro e dunque le vite delle persone sono merce, anche se merce indiretta.  E' un brandello  di sedicente scienza della nuova borghesia produttiva che di fronte alla prospettiva di una società con valori imperniati sul lavoro e sulla sua dignità, preferisce rifugiarsi nel più amichevole " mercato".  Tuttavia su questa stessa base è stato predicato l'intervento massiccio dello Stato in economia come durante il New Deal e, viceversa, il neoliberismo attuale.

Da tempo parecchi economisti fuori da questa stravagante ortodossia stanno sempre più riconoscendo la vacuità di queste costruzioni  e la necessità di riportare il pensiero economico dentro il pensiero sociale e in una interdisclipinarietà che consenta di formulare principi più consistenti. L'ultimo in ordine di tempo è il pamphlet su Time Magazine di Robet Johnson, direttore dell' Institute for new economic thinking che reclama un intenso confronto dell'economia con la realtà dei fatti, piuttosto che perseguire in astrazioni di scarso significato.

Così quando qualcuno si fa forte di necessità dettate da una scienza esatta, potete essere certi che si tratta di proposizioni politiche e ideologiche travestite da certezze. E  potete dire alla politica che, come in gioco di specchi ,si nasconde  a sua volta dietro il travestimento, che un bell'ignobel per l'economia non glielo toglie nessuno. Naturalmente anche questo è un premio istituito dalle banche.



lunedì 16 gennaio 2012

Vi scrivo da una nave da crociera


di Luana De Vita

Non è certo come scrivere da un carcere in Grecia, il paragone è ignobile, è vero. E però da certi punti di vista una nave da crociera può assomigliare più all'incubo che al sogno di un qualsiasi turista o di qualunque essere umano. Un senso di costrizione, di trappola, un bagno di folla rinchiusa in uno spazio che pretende di essere esclusivo, in realtà è come alla fiera di paese: stessa folla, stessa atmosfera festaiola, stessa qualità solo un po’ meno autentica e per 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Alternative a bordo? Scegliere la reclusione, i domiciliari, insomma ti chiudi in cabina dove possono raggiungerti solo gli annunci dell’ennesima tombolata o della lezione di aerobica e l'eco della moltitudine che popola la nave.
Eppure il mercato delle crociere è l'unico che segna percentuali di crescita nel turismo a dispetto del settore aereo in crisi permanente e di quello dei viaggi organizzati altrettanto penalizzato, non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo.

Una nave da crociera potrebbe rappresentare la più tronfia espressione del turismo di massa da iper-discount, l'esaltazione un po' pacchiana del lusso a cinque stelle a prezzi ultra popolari, la riduzione ai minimi termini dell’esperienza del viaggio come scoperta, conoscenza, scambio: un immenso Luna Park che galleggia per tornare da dove è partito. A dispetto di sontuosi saloni, ristoranti glamour e ambienti rococò che pretendono di ricostruire le atmosfere nobili del transatlantico Rex o del leggendario Titanic la popolazione che vaga tra un ponte e l'altro di una nave che gironzola nel mediterraneo per sette giorni non ha l’aria altrettanto sfarzosa. Un’umanità semplice, popolare che ha forse arrancato con difficoltà fino a potersi permettere il “lusso” del “paghi uno e viaggi in due”: 7-800 € per una settimana a persona in cabina interna, pasti inclusi. Italiani straordinari protagonisti di situazioni degne del miglior Totò & De Filippo alla stazione di Milano, senza la nebbia tra un ponte e l'altro. E' dunque questo il valore aggiunto del turismo di massa?

Così la famigliola con i bimbi gratis al terzo giorno di crociera giubila ad alta voce che l'agenzia gli aveva assicurato che si mangiava 24 ore su 24. Incredibile ma vero, sui 13 piani della lussuosa nave da crociera non si fa che mangiare, neanche i polli allevati in batteria possono immaginare un'organizzazione del genere. Panini, biscotti, dolci a volontà, giorno e notte, ogni giorno in cabina arriva il programma con tanto di elenco ed orari dei 10/12 ristoranti e bar disponibili a bordo in caso di “crisi da fame da vacanza all-inclusive”.

E poi? Spettacoli di varietà, tombola, ping-pong, giochini di gruppo, pattinaggio sul ghiaccio, gare di canto e tuffi di pancia, golf, free-climbing, possibile immaginare altro? Certo. Casinò, discoteche e feste ogni notte.
Scendere no? No, avete pagato per tutto questo, adesso godetevelo!

In una sorte di delirio collettivo, per una settimana al ritmo orario imposto dal “programma di bordo”, tutti salgono e scendono dal primo all'ottavo piano della nave, dal settimo al dodicesimo, senza dimenticare di continuare a masticare. E quando la nave si ferma per quattro forse sei ore, in questa o quella città del mediterraneo, la forma più colta ed evoluta di attività di massa che la nave offre è la visita della città in bus e guida multilingue, in alternativa c'è la mappa dei negozi per fare shopping fornita dalla compagnia di navigazione. In tre o quattro ore di sosta a Palma de Mallorca che altro vuoi fare? Sì, è vero puoi sederti in un ristorante locale e ingurgitare una “Paella”, tanto per non perdere l'esercizio alla masticazione e deglutizione. Può bastare? No. Devi fare l'esercitazione per l'emergenza, trascorri quasi un'ora in uno spazio minimo da condividere con altre 150 persone che dovrebbero malauguratamente saltare sulla stessa scialuppa di salvataggio che ti è stata assegnata. La verità? Se ci fosse davvero un caso di emergenza non sopravvivresti comunque, basta partecipare all'ennesima “festa del cibo”per capirlo. Dopo cena, che fai a bordo di una nave da crociera? Mangi ancora! E pur di accaparrarsi l'ennesimo boccone succulento i tuoi compagni croceristi, specialmente se italiani, sono pronti a spintonarti, tirarti gomitate ai fianchi, calpestarti: figurarsi cosa sarebbero pronti a fare in emergenza per prendere posto sulla prima scialuppa, in barba al numero di ponte previsto per il raduno e scritto sulla tua carta d’imbarco, quella che ti assegna il numero di cabina cui è collegato il tuo numero di carta di credito e il ponte di raduno previsto in emergenza. Una specie di carta d'identità che vale quanto la tua vita su una nave da crociera. E tu in cuor tuo continui a domandartelo, sì quanto vale tutto questo, quanto vale la tua vita?

E oggi guardando il gigante del mare Concordia, stramazzato nell’acqua, quel gigantesco corpo abbattuto e scivolato in una posizione innaturale, quasi a dormire nel mare che avrebbe dovuto solcare, ti chiedi davvero: quanto vale la tua vita su una mega nave all-inclusive?

Ma ci sono vite che valgono comunque meno della tua, quella di coloro che per farti ingozzare tutto il giorno lavorano 10 anche 14 ore al giorno, 7 giorni su 7 sette, saltellando da un ristorante all'altro, da un piano all'altro della nave, da un bar in piscina a quello nel casinò. Disperati? Entusiasti? Ti servono, puliscono i tavoli, apparecchiano e guadagnano circa 1000 € al mese, in media. Vivono di mance oltre quel minimo garantito, con i contributi versati se la nave batte bandiera italiana, la mancia è obbligatoria, più eventuali regalie. Questo è quello che dichiarano tutti a bordo, aggiungendo che per loro è un buon lavoro, almeno finché non trovano qualcosa di meglio. Così mentre stiamo ingollando l'ennesimo panino, pasticcio, coscio di tacchino ripieno, sushi o pizza ai “pepperoni” c'è un'umanità proveniente da paesi diversi del mondo – per lo più paesi sottosviluppati- che lavorano come gli elfi di Babbo Natale intorno a noi, per farci sentire “Re”, almeno per una notte e per farci ingozzare festosamente al prezzo di una vacanza che anche la famiglia Fantozzi avrebbe sognato.

Finché un boato non ci sveglia dalla trance alimentare, finche il tavolo imbandito non si rovescia, i cristalli esplodono e il mare ci ricorda che non perdona l’arroganza umana, anche quando è venduta a prezzi popolari.

In molti hanno evocato il Titanic, sarà bene ricordare che proprio quella tragedia ha aperto le porte all’attenzione della sicurezza a bordo, oggi quest’altra tragedia assume lo stesso valore nel momento in cui la “crociera” è rimasto unico baluardo dell’industria del turismo di massa ancora in attivo. I sopravvissuti raccontano di personale volenteroso ma incapace di farsi capire dai molti italiani a bordo, a quanto pare anche da molti stranieri per un inglese che forse basta a servire bibite e pietanze ma non ad organizzare con competenza una situazione di emergenza. Ci sarebbe poi anche l’ambiente da considerare e non solo per i rischi ecologici del disastro ma, e soprattutto, quando galleggiano e navigano perché queste moderne “città dei balocchi” galleggianti, muovono 4000 persone a settimana, che producono quintali di immondizia, alcune si organizzano per un riciclo interno, altre pubblicizzano la loro presunta eco-sostenibilità, ma la verità è che per questo ennesimo prodotto di consumo turistico di massa il nostro mare paga un prezzo altissimo e qualche volta ce lo restituisce e si prende il saldo non in moneta sonante e senza sconti.

martedì 10 gennaio 2012

Confortevole conformismo


di Anna Lombroso

In questi giorni alcuni lettori mi hanno redarguita: sarei una disfattista ammalata di quella patologia nazionale fatta di ipercritica, forse livore, certo scontentezza. E perentoriamente mi hanno chiesto di enumerare, cito, le persone che mi “vanno bene” e che stimo, aspettandosi forse che io risponda Hannah Arendt, Spinoza, Canetti, Trotsky, e molti altri irrimediabilmente morti.
Non mi piace vincere facile. E sarebbe troppo facile dire che siamo andati peggiorando in tutti i settori della società e che i cittadini della polis, tutti, non sono un granchè. Ma in realtà io stimo tantissima gente, oltre a Landini, Canfora, Marino, Bianconi, Ruffolo, Urbinati, Revelli, Rusconi, tanto per citare alcuni visibili. Ma per la maggior parte si tratta di mediaticamente invisibili, persone che non hanno una tribuna dalla quale esprimersi, gente come me, il cui nome non direbbe niente ai miei “critici”, uomini e donne che lavorano, leggono qualche giornale, si arrabbiano, raccolgono firme per i referendum pur sospettando che vengano poi vanificati, fanno la raccolta differenziata malgrado poi gli operatori ecologici infilino tutta la monnezza nella stessa macina avida e indifferente, prendono l’autobus, fanno la fila alla Asl, sono furenti con Equitalia ma ciononostante pagano le tasse e qualche volta anche pretendono la fattura dall’empio idraulico o dal tassista, nemico numero 1 della società. E vivono male l’esclusione non sempre volontaria della politica. Loro e io viviamo in un cono d’ombra, quello di chi appartiene a quella che dovrebbe chiamarsi società civile e che è sempre meno sociale e sempre meno civile, se civile vuol dire essere cittadini della polis partecipi e gratificati di contribuire individualmente al bene comune.

E non c’è da credere a quelli che - illuminati dall’occhio di bue della popolarità e della visibilità che ormai ha preso il posto della reputazione – dicono che la società civile è la loro, quella che loro rappresentano, disillusa, rancorosa, appiattita nel conformismo, un’opinione pubblica che non ha opinioni se non quella di preferire una politica invisibile che amministra l’andamento generale appartata e autoritaria, mentre noi ci dedichiamo ai nostri affarucci di sopravvivenza, quotidianità, egoismo.
Io non credo che siamo così, credo che chi ritiene di testimoniare a mezzo stampa o tribuna politica o conferenza stampa o decreto legge un senso comune remissivo e favorevole a delegare tutto compresa la propria rovina, ci voglia così. Perché è più facile e produttivo governare una plebe anestetizzata dal nuovo bisogno e annichilita dalla scoperta di nuove privazioni dopo l’ubriacatura dei consumi e dell’accumulazione, nutrendo la paura e la diffidenza, favorendo l’istinto non poi tanto represso alla licenza, all’irregolarità, alla corrutela, al ricatto e alla soggezione al ricatto, in nome del mantenimento di piccoli miserabili privilegi in sostituzione di diritti e dignità.

La loro idea, estrema e spettacolare, della società civile e della politica sono terrificanti, dominate dalla potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all'interno dei popoli, e dall'uso di categorie primordiali: fedeltà e diffidenza, amore e odio, per dividere il campo dell'agone politico, in una concezione della civilizzazione basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
Si in effetti ho stima di Arendt, putroppo defunta, quando dice che la politica è l'essere collocata infra, in mezzo, tra le persone, che la virtù democratica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d'individui, una società.
Mentre spesso viene attribuita una leadership “morale”, autoritaria ed egemonica, a cuori che battono per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi. Per secoli, democrazia è stata l’utopia degli esclusi dal potere per contestare l´autocrazia dei potenti; ora è diventata l´ostentazione dei nuovi potentati per rivestire benevolmente la propria supremazia.
E è così che presso la gente comune, non ci sarà un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche, ma si auto alimenta un accantonamento, un fastidio diffuso, un disincanto che diventa un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca del ceto politico sgangherato o sobrio che sia , rappresentano ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni, come in una reazione anti-retorica alla retorica democratica.
Il "tanto sono tutti uguali” è il tremendo slogan della perdita, di valori, di etica, di riconoscimento nella cittadinanza, nel quale si identificano quelli che considerano la democrazia una vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi, prima e ancora oggi, con l’adesione entusiastica al contesto mediatico dei nuovi padroni, una "teatrocrazia" cui di guarda con scetticismo o rassegnazione.

Ieri il ceto politico, quello più distante dalla vita della gente comune, che disprezzava, faceva a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d'essere uguali agli altri, "uno di loro". Oggi il potere sostitutivo della politica ancora più autocratico e oligarchici, esalta una schizzinosa e spocchiosa separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Una classe separata appunto che entrata nei luoghi del governo dopo essere cresciuta in quelli contigui, ritiene di aver acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. Con una riconferma dell’organizzazione per caste, stratificazioni sociali di appartenenza per nascita, appartenenza o fidelizzazione, trasmissione ereditaria o censo. Un mondo sclerotico per il quale chi è fuori è un pericolo, un’insidia da avvilire con stenti e la privazione di parola e diritti.

Eppure sia pur separata, frustrata, adirata, marginalizzata quella “società civile” esiste. Non ha nulla a che fare con i salotti e le enclave anche televisive dove s'incontrano quelli che presumono d'essere élite del Paese e si auto-investono di compiti salvifici, lobby più o meno esplicite e gruppi d'interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione.
Parlo dei miei “amici”, l'insieme delle persone, delle aggregazioni di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l'utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Persone, individui soli o insieme ad altri, disposti a dare qualcosa di sé, per figli e nipoti anche non “loro”, perché sono innamorati della bellezza, del sapere, del paesaggio intorno, della vita. Che hanno scoperto che cosa conta: contare, con le opere, con il pensiero, con la critica, che si ostinano a considerare non uno sterile e amaro trastullo, ma un diritto e un dovere.
Mi viene da ricordare ancora una volta la frase dell'abate Siéyès con la quale inizia "Che cos'è il terzo stato", un proclama sull’autocoscienza dei cittadini: "Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Appeso al muro il Quarto Stato, oggi sempre più umiliato, riprendiamo quel senso, diventiamo "qualcuno".

domenica 8 gennaio 2012

Rivolta ungherese, silenzio europeo


di Agi Berta

1000 dentro, 100000 fuori. Ma le televisioni non hanno trasmesso nulla sulla più grande manifestazione dopo il ’56 in Ungheria. E’ un paradosso: ho avvisato io dall’Italia molti miei amici, alcuni dei quali pur vivendo a Budapest e non ne sapevano niente!  La tv nazionale si è giustificata il giorno dopo quando il mondo intero trasmetteva foto, interviste della straordinaria folla scesa in piazza, con pretesti  assurdi e incredibili: abbiamo fatto tardi, non siamo riusciti a trovare un posto buono per le riprese, cosi abbiamo ripreso solo alcuni poliziotti e un paio di persone. 

I politici che festeggiavano la nuova costituzione hanno  lasciato il teatro dell’Opera dove si svolgeva la serata di gala dall’uscita posteriore. E’ indicativa la dichiarazione del capo dello stato, Schmitt (un ottimo sportivo, ma per il resto un perfetto ebete, creatura di Orban), dopo la serata di gala: “Tutti gli ungheresi veri stanno festeggiando con noi! “… e poi anche lui, è uscito dalla porta di dietro. 

Questa ì l’Ungheria di oggi, quella dominata dalla destra. E dalla sua vittoria nel 2010 che cerco di attirare l’attenzione sull’Ungheria, purtroppo con scarsi risultati, perché le mie segnalazioni  erano di  ordine politico: il rinascente nazionalismo e lo sciovinismo imperniato sull’idea di restaurazione della “grande Ungheria” cui primo passo è stato l’estensione del diritto di voto ai cittadini romeni, slovacchi  di etnia ungherese. Su questo terreno si è innestata la  politica antirom senza nessuna voglia di integrazione, la rinascita virulenta dell’ antisemitismo, l’uso strumentale della destra neonazista frenata a parole, ma liberata nei fatti  tanto che tutte le sue proposte sono state accolte.

Così  la nuova costituzione è basata su pilastri che già abbiamo conosciuto nel 1933: dio patria , famiglia (la protezione del feto dal momento del concepimento!). Non solo, ma anche sull'imbavagliamento della stampa grazie a una legge liberticida che ha portato al licenziamento di circa 8-900 lavoratori dei media ,prevalentemente quelli che non appoggiavano la linea del governo. Destino peraltro riservato anche ai dipendenti  degli enti statali, comunali o regionali, se non erano d’accordo col governo: molti miei amici sono stati licenziati entro luglio 2011. Dopo questa  data hanno dovuto frenare i licenziamenti perché c’è stata una seppur blanda reazione sindacale collettiva. E tuttavia la paura è diffusa nel Paese, tanto che molte persone licenziate nemmeno osavano chiedere protezione sindacale perché temevano che non avrebbero trovato mai più un lavoro se venivano considerati “ poco affidabili, non sufficientemente servi”.

 Del resto fare opposizione anche nello stesso Parlamento è diventato difficile: nuove norme  prevedono l’impossibilità di dibattito nel caso di leggi “urgenti”. Cosi il 23 dicembre il parlamento ha emesso  17 leggi in un solo giorno, senza alcun dibattito. E il 2 e 3 gennaio altre 7. L’opposizione è totalmente paralizzata, e quando alcuni deputati hanno protestato, sono stati semplicemente arrestati…e rilasciati poche ore dopo.
Ultimo atto: la chiusura del Klubradio, l’unica stazione radiofonica libera del paese. 

La situazione è tale che forse è resa meglio da una piccola notazione personale:  l'altro ieri c’era una conferenza stampa al Parlamento dopo una tavola rotonda tra vari ministri e il direttore della banca centrale. Ebbene al telefono avevano negato semplicemente l’esistenza di questa conferenza cui avevano accesso solo i giornalisti delle testate di destra che a loro volta avevano scritto articoli mielosi e lecchini, tralasciando un solo particolare: il direttore della banca centrale aveva lasciato la riunione dopo un’ora, incavolato nero.

E veniamo così alla crisi e alla piazza. Finché i problemi erano di ordine politico nessuno se ne fregava. Non la UE, non i media internazionali, tranne forse gli americani che a più riprese avevano cercato richiamare l’Ungheria al rispetto dei  valori democratici. Invano. Come è passato sotto silenzio l’accorato appello della Heller sul sostegno dei media.(qui il colloquio di Agi Berta con la Heller del settembre scorso)  Infatti la gente in Ungheria ignora cosa stia accadendo. Ignora: solo pochi leggono la stampa e i pochi giornali ancora indipendenti (HTV, Nepszabadsag, 168 ora),  il resto si affida ai tg, alla radio dove perfino oggi trasmettono notizie tranqullizzanti, proclami all’unità nazionale, e messaggi subdoli circa il sentimento anti magiaro del mondo. E la gente ci crede.
Ma una politica autarchica, una politica miope prima o poi si fa sentire anche al livello economico ed eccoci a due declassamenti (il terzo quello di Finch è di ieri) che considerano l’Ungheria un Paese spazzatura, dove gli investimenti sono sconsigliati.

In contemporanea  è iniziata un’ azione dalla base, dai sindacati, dalle associazioni civili. La grande manifestazione del 2 gennaio è il risultato di questa organizzazione svolta prevalentemente sul web. Chissà che non cominci il momento del riscatto.