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domenica 26 agosto 2012

Il popolo si difende: rinasce la cassa Peota


di Anna Lombroso

L’ostaria de l’Anzolo Rafael era grande, disadorna e buia come un antro, illuminato dalle due finestre piccole affacciate sul campo irregolare e spoglio. Da una parte la ghiacciaia per conservare la “spuma”, la salettina con pochi tavoli e il bancone della mescita vicino alla cucina, il grande barattolo di vetro con dentro i croccanti e il piatto con le aciughete. Gli avventori con l’ombreta in man si sporgevano a guardare el paron, Michele, che si affaccendava a friggere le moleche, quei granchi lenti e maestosi, dalla polpa succulenta o a tagliare le cipolle per il saor, la marinatura sotto la quale si era conservato perfino il corpo santo del vescovo di torcello in attesa che si calmasse la “buriana”, per trasportarlo in San Marco con gran pompa.

Ma la zarina de l’Anzolo era la signora Paola, una botticella energica, autoritaria fino al dispotismo, che ti imponeva menu e bibite, selezionava la clientela come un buttafuori perché si vantava di andar a simpatia ma ad esser di suo gradimento erano in pochi. Così anche se la saletta era deserta mandava indietro i quattro milanesi in cerca di colore locale o gli americani sulle tracce dell’uomo di Finca Vigia, trattando quasi amorevolmente qualche indigeno sotto spirito o noi ragazzi squattrinati che chiedevamo lo spritz con un piattino di cicheti, uova sode e qualche schia, quei gamberetti grigi succulenti con la buccetta fina.

Era una vera autorità la siora Paola tanto che spettava a lei la tenuta della cassa peota, con il bussolotto in fondo al bancone e la lavagnetta coi nomi: la Cate in ritardo, Nane a posto, denunciati i ritardatari che rischiavano di non andar al garanghelo. Eh si, Venezia aveva già le sue banche etiche, inventate dalle donne e avviate con la cresta sulla spesa o impegnando le bucole d’oro o il copriletto ricamato al tombolo da bambine, sedute sulla seggiolina di paglia in rio terà o in campiello. Erano loro che avevano dato vita alla cassa peota, un rudimentale sistema di risparmio e investimento a capo del quale c’era una cassiera proprio come la parona dell’Anzolo Rafael, cui spettava il versamento per il fondo cassa, cui si aggiungevano tutti i mesi le quote delle altre donne e di qualche uomo, anziano e conosciuto, per mettere insieme il capitale. Le socie potevano così ottenere un prestito dalla cassa, per sanare qualche debito, far fronte a una spesa improvvisa: una malattia, una fia che se maridava, pochi capricci. E restituire la somma in rate settimanali entro sei mesi o un anno versando un piccolo interesse, che andava a finanziare proprio il garanghelo, sospirato come un rito agli dei dell’oblio dei pensieri e della miseria, da consumare in un giorno, andando via tra tutte donne sulla peota, il barcone che trasportava il carbone, con due uomini anziani ai remi, carica di vino e vivande. E via in laguna o per i canali fin verso il Brenta, fermandosi su qualche spiazzo erboso in riva a cantare: “la note xe bela, fa presto Nineta, andremo in barchetta, i freschi a ciapar”, e ballare dimentiche di tutto, ridenti e spettinate, per tornare la sera ebbre di vino e di effimera libertà.

Per secoli all’insaputa di mariti e padri le donne veneziane hanno nutrito i loro fondi segreti, le loro casse peote, come le scozzesi mogli di minatori, come le africane di cui parla Sen, investendo in fiducia, solidarietà, lealtà e aiuto reciproco: la cassiera era onorata dell’incarico e con onore governava prestiti e debiti.
Ma doveva succedere che l’enfasi dell’avidità, che la smania di accumulazione andassero all’attacco di questa forma solidale di mutua assistenza. E è stata proprio l’Unione Europea a chiedercelo, di metterle fuori legge, dichiarando “indebita” la loro “attività creditizia”e privandole di tutela giuridica; decretandone la fine ad eccezione della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Mogliano (una variante del sistema delle casse ma con gli stessi principi), costituita nell’Ottocento e tenuta a “battesimo” da Giuseppe Garibaldi (di cui si sostiene possedere la lettera di approvazione), che celebra l’anniversario della fondazione con la manifestazione dei “5 panaini”, pan e vin, distribuiti nelle varie borgate di Mogliano.

Sostituite o assimilate da esose casse rurali, da rapaci banche, da finanza creativa e da inesorabile strozzini legali o meno, sembravano scomparse: le ultime notizie che ne avevamo compariva in cronaca, quando cassieri infedeli scappavano col bottino, una volta perfin do miliardi! scriveva il Gazzettino.
Sembravano scomparse, ma si dice che sotto traccia, in qualche “bacaro” di Castello, la Rampa, per esempio, nella cantina giù della scala, o dietro Santa Margherita, in quelle osterie dove un tempo si riunivano i carbonari prima e i partigiani dopo, qualche cassa peota, c’era ancora, sotto forma di “benefica” o di cooperativa all’ombra di più corpulente organizzazioni di gondolieri o ambulanti. Ma c’era e c’è. E ne sorgono sempre di più, a Cannaregio, sulle belle fondamente nelle quali Canaletto ambientava la vita minima dei veneziani, quando la moneta era rara e si viveva di scambi con i “vovi”, le uova di campagna e le verdure di Sant’Erasmo. O di fianco a Rialto in quelle osterie dove i ricchi presto indebitati si mescolavano coi poveri come in un teatro spensierato nel quale recitavano la malinconia della caducità, del marcio e del fatiscente, il senso della corrosione, il morso del tempo e delle intemperie, il lutto e la solitudine, il silenzio morto e il vuoto della laguna.

Se vai a bere un’ombra ti succede di vedere la lavagnetta, il bussolotto e di incontrare qualcuno che ti invita alla cassa peota, come u modo di ritrovare l’antico civismo veneziano, quello che sembrava spingere l’intera popolazione, tutti quelli che c’erano nati o arrivati da ogni parte, a partecipare, come dice Le Corbusier, a una totalità - gesto gioioso e fecondo che rappresenta, in qualche modo, la quota d’amore dedicata a ogni cosa, la gioia di partecipare a un atto collettivo e amichevole, di ritrovare la solidarietà nella sfortuna e magari di andar a un garanghelo, alla faccia di chi ci vuole servi, alla faccia della paura, in ribelle libertà.

mercoledì 22 agosto 2012

La Cariddi - Dakar


di Licia Satirico

Un tempo, nella mia terra, i marinai dovevano farsi legare per non cedere ai richiami intriganti delle Sirene. Ora assistiamo a sporadiche epifanie di latitanti, accompagnati dalle sirene della polizia. Un tempo da queste parti passava Ulisse, ma non esistevano ancora i navevelox, i percorsi obbligati e nemmeno le feste patronali.
Faccio ogni giorno la Cariddi-Dakar: chiamo così la strada che dal centro di Messina conduce alla punta del Faro, al margine estremo della Sicilia orientale. Più che una strada è una categoria dello spirito, aspra e surreale: un percorso da brivido che costeggia il mare e ti fa capire che le Sirene non ci sono più, ma i mostri son rimasti.

Si comincia con la cortina del porto, detta anche del porco per via di certe consuetudini notturne dure a morire. Il traffico è convogliato su una trazzera di mulo che sfocia su una roulette semaforica: il verde scatta solo quando un’onda di auto è già pronta ad assalirti alle spalle, ricordandoti la precarietà della vita e la patente a punti. Si prosegue sul viale della Libertà, dove il percorso del tram s’incrocia con una corsia di vetture parcheggiate in seconda fila all’altezza di una nota rosticceria: è l’incantesimo dell’arancino volante, che genera torme di avventori automuniti e affamati.

Poi iniziano le Rotonde, le Ovali e le Ellittiche, con livelli di difficoltà crescente: alcune delle rotatorie della Cariddi-Dakar sembrano fatte apposta per farti schiantare contro un muro, ma solo in prossimità del pronto soccorso più vicino o dei numerosi cimiteri lungo il percorso. La nuova Panoramica dello Stretto è strada da intenditori, posta tra distese di sabbia cementificata e furiose radici di alberi che deformano l’asfalto. Si procede così al centro della carreggiata, tra il brivido dello scontro frontale e il contatto con la natura. Se si guarda a destra si comincia a vedere il mare, ma non è il caso di distrarsi: meglio lasciare l’emozione del panorama ai propri ospiti, sempre che siano dell’umore adatto. Il bello arriva quando finisce il tratto di competenza Anas, perché inizia quello di incompetenza: buio anche nelle notti di plenilunio, curato come lo sterrato di una fazenda, movimentato da ville fantasma e piazzole di sosta per amanti in ristrettezze.
Solo alla fine di questa strada psichedelica comincia a vedersi Cariddi. La riconosci subito, l’ammaliatrice. Ti pare ancora di sentire le Sirene: ma sono quelle della polizia municipale che devia il traffico per processioni religiose, sagre, feste paesane, cozze d’oro e di platino, mitili ignoti e talora ignobili. Suoni tribali si mescolano a cantanti neomelodici in un ibrido multiculturale perverso. La folla si riversa per strada, trafitta da un raggio di sole: ed è subito fiera. Psichedelici ninjia peloritani di età incerta ti lanciano antiche lastime quando li sfiori a passo d’uomo, timorosa di omicidio colposo, kamikaze isolani si sfidano pedalando contromano in bicicletta a fari spenti, improvvisati street dancers si lanciano tumultuosi nell’ultimo tango a Ganzirri.

Poi c’è il parcheggio: creativo, improvvisato, sacrilego, senza o con rissa a seconda che gli abitanti del luogo ti facciano spazio con le buone o con le cattive. La sosta sulla Cariddi-Dakar è come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita. Quando torni alla macchina e la ritrovi integra, con le ruote gonfie di salute e la carrozzeria lucida, sei preso da ottimismo incontrollabile. È in quel preciso momento che pensi “lo posso rifare”.
Lo rifaccio tutte le sere, perché la Cariddi-Dakar è un atto d’amore: per il mare brillante e profondo, per la nostalgia struggente del passato e per i miei figli d’anima, che crescono all’ombra delle nuove sirene metropolitane.

sabato 18 agosto 2012

La storia sono loro: da Matteotti all'Ilva il lungo filo di corruzione (Seconda puntata)


di Anna Lombroso

È difficile misurarsi sul campo della casualità storica. Ma è meno arduo identificare le costanti che caratterizzano la nostra storia, che segnano l’autobiografia nazionale, un esercizio al quale si è dedicata la storiografia che le colloca in grandi aree, le stesse permanenti e potenti da 150 anni: una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole, una corruzioni troppo presente in un tessuto politico troppo pervaso dal mercato, una politica troppo connotata dal personalismo, tale da indurre leadership autoritarie e una ricorrenza delle forme dittatoriali, tutti fenomeni che hanno contribuito all’innalzamento della tolleranza per l’irrisione delle regole, per le scorciatoie e licenze, ed infine per l’illegalità, che percorre e innerva tutto il tessuto della società.

Anche a non voler trattare queste componenti come tare, ineluttabili e antropologiche, c’è da riflettere sulla loro permanenza, il loro implacabile interagire, il periodico ripresentarsi delle loro forme più virulente soprattutto nei momenti di maggior disordine, di vulnerabilità istituzionale, di crisi economica.
Una delle sfide più formidabili che l’Italia si trovò ad affrontare nel 1861, fu quella di separare il modo di operare dello stato da quello della società che si trovava a governare, soprattutto per quanto riguardava la lotta al clientelismo e alla corruzione ereditati da ben prima del sistema borbonico, per via di quel rapporto aberrante tra patrono e cliente, che stabilivo un patto formale in cui il secondo giurava fedeltà al primo ricevendone in cambio garanzie giuridiche ed elargizioni discrezionali ed arbitrarie. Che nuovo stato italiano non abbia condotto quella battaglia, rappresenta lo smacco forse più atroce del Risorgimento: che dietro al sipario delle regole formali dell’Italia liberale, manteneva il sistema dei vecchi rapporti patrono-cliente e dei legami familistici. Ben lungi dall’esercitare una funzione pedagogica per la creazione nel tempo di prassi di etica pubblica, lo stato, una monarchia corrotta e inetta, erano plasmati dai rapporti sociali tradizionali.
Si è consolidata quella socializzazione di massa alla pratica dell’illegalità, filtrata attraverso il familismo e il clientelismo, che da allora, culminando nel fascismo e fino alla nostra contemporaneità, ha alimentato il sistema della corruzione, nutrito alleanze opache tra politica e impresa. Anche in virtù del carattere del capitalismo italiano, caratterizzato dal suo uso della finanza (bancaria e delle imprese) per puri scopi di potere e corruzione, dalla natura consociativa dei rapporti fra imprese, anche concorrenti, che finisce per far prevalere gli aspetti di potere rispetto a quelli astrattamente di mercato e dalla vocazione al parassitismo, alla pratica del ricorso agli aiuti statali, non solo sotto forma di incentivi e fondi a perdere, ma anche grazie a un quadro legislativo protezionistico del profitto.

Prendono forma allora, i problemi di oggi, che affondano le loro radici in un passato in cui
non si è riusciti ad individuare soluzioni degne di un paese democratico, quando non si è riusciti a produrre gli anticorpi necessari per debellare i fenomeni più patologici, con l’effetto di ostacolare ad un tempo lo sviluppo economico e il normale gioco democratico.

Lo conferma succedersi seriale di scandali, per parlare solo di quelli affiorati, tutti segnati da fenomeni di corruzione e di pesante coinvolgimento dei governi e della classe politica. La “Regia dei Tabacchi”, il caso denunciato da Matteotti con le losche alleanze commerciali strette dai Savoia e poi i costumi rapaci della nuova classe dirigente che sapeva di non dover più temere gli attacchi di una opposizione che non esisteva più, quella dei "predoni in orbace" investiti da un potere assoluto, i giri milionari di Edda Ciano o quelli del podestà di Milano, guerre per alimentare il commercio delle armi e commercio di armi che nutre la guerra: iniziava allora quella pericolosa indifferenza del cittadino verso la gestione del potere, considerata magari con disprezzo, ma non combattuta, che resta a tutt'oggi una delle tare della nostra società.

E, a seguire – e certo ne dimenticherò qualcuno - dall’oro di Dongo in poi nella fase definita felicemente da qualcuno la cinismocrazia, i fasti dell’Eni, le acrobazia di Scelba, e il caso Sindona (1974), proseguendo con i fondi neri che coinvolgono grandi imprese italiane (petrolieri e fondi neri dei primi anni di vita di Montedison); Eni‐Petromin (1980); il Banco Ambrosiano e lo Ior (1982); le losche trame di affari degli affiliati alla P2 (in particolare le vicende del Corriere della Sera); la Sir e le sue scandalose sentenze che risarciscono gli eredi del fallito, frutto di corruzione dei giudici come quella sul lodo Mondadori; Enimont (la madre di tutte le tangenti); il crollo del gruppo Ferruzzi e di Montedison (1993); il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; e infine negli anni più recenti Cirio (2003); Parmalat (2004); le scalate bancarie con copiose manipolazioni di mercato (2005); gli immobiliaristi di oggi, e, a scandire implacabilmente, la Fiat, gli aiuti provvidenziali e le tangenti come metodo insostituibile di negoziato: in tutto questo ripresentarsi di casi di malaffare, l’ombra di poteri più o meno occulti, una stampa a verità intermittente e manovrata, un’autorità giudiziaria altalenante tra trasparenza e copertura di potenti, presenze costanti di burattinai e assenze colpevoli di una opinione pubblica indulgente quando non connivente.

E lo scandalo dell’evasione amorevolmente coperta, denunciata con proclami e sostenuta con misure estemporanee di condono, scudo, con l’avvilimento degli organismi di controllo, con la promulgazioni di leggi speciali al servizio dei trasgressori, la forma più sublime e sofisticata di corruzione cui si prestano e della quale godono i partiti. Come ebbe a dire Luciano Cafagna nella sua “grande slavina”, “da una ipotetica formula di comportamento, nella quale si poteva ancora sperare, secondo cui la politica cercasse di procurarsi capitali per produrre migliore politica, si è passati a una formula di comportamento, secondo la quale il capitale raccolto dalla politica pare servire piuttosto a poter fare «più politica», sì, ma finalizzata pressoché unicamente a raccogliere «più capitale»…”, provocando meccanismi ingovernabili di destabilizzazione del sistema, della destrutturazione del mercato elettorale, di erosione della partecipazione e della coesione sociale, di impoverimento della democrazia fino a una barbarica rivolta silenziosa contro uno Stato debole coi forti e forte coi deboli, che chiede molto e che nel redistribuire sperpera quel che ha raccolto.

Quello che in Francia venne chiamato centralismo debole, qui potrebbe essere stata una unità debole, fino ad essere uno Stato debole, o forse un paese paradossalmente senza Stato, oggi severamente annichilito, pur avendo una Costituzione forte. Ma con un eccesso di burocrazie e un difetto di efficienza, leggi che dettano deroghe e non regole, vertici amministrativi scelti per appartenenza e non per competenza, standard di governo alternanti a fronte di un primato dell’emergenza e della straordinarietà, tutti fattori che promuovono soluzioni autoritarie, “provvidenzialiste”, miracolistiche.
L’impeto morale che spinse al discorso “suicida” Giacomo Matteotti suonò come un grido contro una indifferenza che era durata troppo a lungo e che invece era appena cominciata. Servirebbe qualche grido oggi che assistiamo indifferentemente al nostro suicidio morale, fatto tra l’altro di incapacità a fare esperienza della storia come della soverchiante inclinazione a fare dell’accettazione una virtù. Anche l’acquiescenza a questo suicidio istigato, alla dissipazione del nostro patrimonio di civiltà e bellezza, all’annichilimento dei diritti, alla sistematica e scriteriata liquidazione della legalità, al primato dell’abuso e del sopruso, in un infame relazione di scambio e di rapina, di intimidazione e elargizione, che incrementa disuguaglianze e privilegi, irregolarità e ingiustizia.

Abbiamo bisogno di sentire il grido comune, di noi tutti, per il crimine che stanno commettendo ai nostri danni, ai danni di una intera nazione, di un popolo e della sua cittadinanza, dei quali diventiamo correi se lo subiamo, se come scrive Canetti l’istigazione dei conquistatori ha l’effetto di indurre auto inganno, accecamento, rimozione, ignara mimesi del carnefice, inconsapevolezza della tragedia, autodestituzione della coscienza personale. Rinnoviamo in noi, con quel grido, la misura della nostra volontà, della nostra responsabilità, della felicità di riprenderci la vita, ardua, impervia e così bella.

venerdì 17 agosto 2012

La storia sono loro: da Matteotti all'Ilva il lungo filo di corruzione (Prima puntata)


di Anna Lombroso

Era il 16 agosto del 1924, il vivace bastardino del brigadiere Ovidio Caratelli zampettava annusando in giro nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano quando si mise abbaiare grattando la terra intorno a un fagotto informe. È il corpo di un uomo, sta là da tanto tempo che è impossibile il riconoscimento, ma tutti quelli che accorrono pensando di essere in presenza di uno di quei delitti estivi, delitti passionali, o di gelosia o di soldi, non hanno dubbi, quello è il cadavere di Giacomo Matteotti, sequestrato sotto casa il 10 giugno e lasciato là tra i rovi e gli sterpi dopo l’esecuzione.

La condanna a morte se l’era emessa da sé, il 9 giugno, con un discorso alla Camera, una denuncia appassionata e potente contro il regime, proferita davanti a quell’aula che Gramsci descrive con lucida sapienza: “da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull'Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari”. La piccola borghesia, “una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare”, muta la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e conviene di corrompere anche la piazza. Lo Stato ufficiale è indebolito e esaurito dalla guerra e sono in rovina gli altri istituti, i suoi fondamentali sostegni: l'esercito, la polizia, la magistratura.

Sempre Gramsci: “corruzione e rovina sono condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il "popolo delle scimmie" il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, è caratterizzato appunto dall'incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato)”. Il padronato, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici "rivoluzionari" e disgregare le istituzioni dello Stato. così la classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del "popolo delle scimmie" attuando una modernizzazione senza cambiamenti strutturali e senza rischi.

A quello serve la Ceka contro la quale è indirizzata l’invettiva di Matteotti,  il "corpo di vigilanza" isituito nel gennaio da Mussolini, che si era ispirato a Lenin a quella C' cresvicianaia Komissija, piu' tardi definita da Stalin "la spada nuda del proletariato" creata a difesa del potere bolscevico e quindi anche per mettere a tacere i dissidenti. Disinteressato alle sorti del proletariato, Mussolini ne voleva fare uno strumento per la sua personale sicurezza, per la sua privata inquisizione, per sostituire con un corpo speciale gestito dai suoi fedeli, gli organismi di sicurezza e investigativi dello Stato, in modo da perfezionare il controllo dei controllori.
Ma Matteotti sapeva bene che quella Ceka, il cui nome era stato inventato proprio per evocare una potenza segreta, inafferrabile, implacabile, serviva anche come braccio operativo e non solo per portare a compimento i brogli e la strategia dell’intimidazione e della minaccia squadrista. Era quello il mandato di Mussolini per il capo della polizia De Bono, il quadrumviro Balbo, il segretario amministrativo del Pnf Marinelli, il capo dell' ufficio stampa della presidenza del Consiglio Rossi, il membro del Direttorio Forges Davanzati, riuniti il 10 gennaio 1924, nel suo appartamento di via Rasella proprio per la costituzione di una "squadra di polizia interna". Ma non solo. Ad affiancare il designato Dumini, preceduto dalla sua fama di  killer feroce, c’è quel certo Marinelli  che ha le mani in pasta, nei quattrini leciti e illeciti, una sorta di tesoriere, pronto a prestare la sua opera e la sua competenza al servizio degli affari sporchi già collaudati di casa Savoia e di quelli che il regime ha già cominciato ad avviare con profitto.

Che la Ceka non fosse un corpo deviato e ignoto a Mussolini lo prova la frase pronunciata il 30 maggio dal duce dopo il discorso con cui l’irriducibile Matteotti aveva denunciato in parlamento le violenze e i brogli dei fascisti nelle elezioni del 1924: "Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell' uomo, dopo quel discorso, non dovrebbe piu' circolare...", sdegnato dall’inefficienza inaspettata di quell’organizzazione fatta di squadracce di delinquenti zelantemente efferate, che si è già lasciata alle spalle una scia di sangue, dall' assassinio di Don Minzoni alla prima bastonatura di Amendola, all' assalto alla villa di Nitti.  Dumini deve essere all’altezza della sua fama, perbacco, quella di un violento, sadico, ebbro di arroganet sopraffazione, che si definisce così: "Dumini, otto omicidi", rivendicando  di essere stato protagonista della strage di Foiano di Chiana nel 1921 e della rappresaglia all' eccidio di Sarzana in quello stesso anno, di avere agito agli ordini del ministro degli Interni fascista e nel suo libro paga, per infiltrarsi nell' opposizione in esilio a Parigi e denunciarne i capi, di avere trafficato in armi e di essere disponibile per ogni basso servizio, dalla corruzione, alla punizione fino al delitto, fornito di una tessera di giornalista parlamentare con la quale entrare alla Camera, strafottente, irridente e intimidatorio

Quella invettiva spericolata, lucida e luminosamente imprudente, che lo condanna a morte il 9 giugno, Matteotti la pronuncia davanti a una Camera ostile,  in un´aula inferocita che lo interrompe a ogni frase. Alla fine, esausto, si abbatte sul banco, e a un collega (anche lui coraggioso) che si congratula risponde scuotendo la testa: «Però adesso voi preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Non avrà neanche quella. Il 10 giugno sul lungotevere mentre a piedi si dirige  verso il Parlamento, viene aggredito, caricato su una macchina, ucciso da Dumini e gli altri.
« Or, se a ascoltar mi state / canto il delitto di quei galeotti /che con gran rabbia vollero trucidare / il deputato Giacomo Matteotti / Erano tanti:/ Viola Rossi e Dumin, / il capo della banda / Benito Mussolin.»  La canzone viene canticchiata piano già a due giorni dalla scomparsa del deputato, denunciata dalla moglie Velia che dopo il ritrovamento con fierezza rifiuta la pompa del funerale di stato offerta dal mandante, che alla Camera il successivo 3 gennaio prima respinge l'accusa di un suo coinvolgimento nel delitto per poi assumersi, anzi rivendicare, la responsabilità politica del clima di violenza in cui tutti gli assassinii e le violenze  compiute in quegli anni erano maturati,  per riaffermare, di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo: “ Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto ……   Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi”.

In quei mesi, dal ritrovamento di Matteotti ad allora, scrive Ruggero Zangrandi, un’onda di rivolta aveva squassato il Paese e il panico si impadronì degli stessi fascisti, gli oppositori “costituzionali” si ritirano sull’Aventino, ma si fanno giocare dal re e dalle sue promesse, finché in quel 3 gennaio Mussolini completa il colpo di Stato, denuncia l’Aventino come sedizioso, mette in licenza la Camera, abolisce la libertà di stampa, promulga le sue leggi ad personam destinate a trasformare l’informe moto reazionario del fascismo in regime totalitario. Qualcuno è folgorato dall’assassinio di Matteotti: De Nicola che aveva dichiarato, proprio in quell’aprile,  l’On. Mussolini appare l’uomo dotato di saldi propositi e della vigoria necessaria per tradurli in azione restituire allo Stato l’autorità che aveva perduto e al governo il prestigio che aveva compromesso….”,  si ritira a vita privata. De Gasperi che in occasione del voto sulla riforma elettorale, indusse i deputati popolari e limitarsi all’astensione, concorrendo all’approvazione, passa all’opposizione e si ritira in Vaticano, appartandosi dalla politica attiva.

Prima e anche dopo gran parte del ceto politico è inerte o si fa contaminare: alcuni si illudono, forse, di normalizzare la situazione. Altri al momento del voto alla Camera si limitano  all’astensione. I no sono 6 in tutto. Tra i si spiccano i cattolici “nazionali”, i liberali di Salandra, molti insospettabili. Un anno dopo Mussolini istituisce il tribunale speciale e la pena di morte, elimina l’opposizione alla Camera mentre “nomina” 94 nuovi senatori, compresi intellettuali, musicisti, studiosi e qualche “tecnico”: ammiragli, generali e banchieri.
Con Matteotti è stata seppellita la possibilità - o la volontà - di esercitare un’opposizione parlamentare, ma anche la denuncia del malaffare che usa il fascismo per proliferare e che il fascismo alimenta per promuoversi, generare consenso, comprare propaganda.

Il deputato macellato aveva denunciato qualcosa che per anni è stato oggetto di una colpevole rimozione, la tremenda endemica corruzione, la componente di criminalità economica che cresce sempre di più man mano che il regime occupa lo stato, la pubblica amministrazione, la stampa, in accordo o in concorrenza leale con la monarchia, in perfetta continuità con la catena di affari loschi che hanno segnato la vita economica e politica dell’Italia unita, punteggiata di scandali: l’appalto del monopolio dei tabacchi, concluso con la sanatoria pro bono arbitrio, votata alla Camera; quella della Banca Romana: misteriosi episodi, come quelle legate al regicidio di Umberto, che mette in luce le collusioni tra potere giudiziario e classe dirigente, anche in materia di illeciti; gli aiuti improbabili all’industria siderurgica. E il fosco affaire Sinclair, del quale Matteotti sapeva e sul quale indagava e che aveva fatto oggetto di denunce pubbliche. Henry Sinclair, petroliere e finanziere d’assalto abituato a aggirare a suon di dollari e di favori procedure burocratiche, politiche, diplomatiche, parlamentari di casa sua e dell’altro mezzo mondo, non si arrendeva all’ipotesi che la sua Sinclair Oil,   potente compagnia petrolifera, sostenuta da alcuni tra i più grossi gruppi finanziari di Wall Street, che facevano capo al cosiddetto Money Trust newyorchese, di cui la banca di Rockefeller era autorevolissima esponente, fosse insidiata dall’arrivo in Italia dell’Anglo Persian, concorrente nella concessione per attività di esplorazione in Sicilia ed Emilia, promessa dal re e garantita da Mussolini.
Lo storico inglese Denis Mack Smith ha scritto: «Uno dei motivi che portarono all’uccisione del parlamentare stava proprio nel fatto che egli si era recato in Inghilterra con informazioni sul sistema di corruzione che stava contribuendo a finanziare la rivoluzione fascista: una tale pericolosa fonte di informazione doveva essere soppressa a tutti i costi». Matteotti stava allestendo un dossier sugli scandali di cui erano protagonisti gli uomini di Mussolini, aveva dichiarato  di avere in mano le prove della corruzione nell’affare Sinclair, che compromettevano la Corona o ambienti ad essa molto vicini. La  bufera politica scoppiata col delitto Matteotti convince Mussolini – dopo che la commissione parlamentare aveva minacciato un pronunciamento negativo – a prendere l’iniziativa di una rescissione dell’accordo già stipulato con la Sinclair.

Per anni è stata accreditata una menzogna:  il Fascismo era, sì, una dittatura, che aveva strappato con violenza la libertà agli italiani, aveva eliminato ogni opposizione e dissenso, ogni libertà di stampa e partito politico, ma i treni arrivavano puntuali e i fascisti non rubavano, non erano corrotti, non corrompevano, non favorivano, non piegavano lo Stato ai propri interessi. Qualcuno già nel 1924 aveva profetizzato l’egemonia di un regime vocato e segnato da  truffe e speculazioni, arricchimenti improvvisi e profitti illeciti, malversazioni, scandali, carriere inspiegabili, insomma, panni sporchi, affari sporchi, sporche alleanze e sporchi ricatti. Per un affaire Sinclair andatao male altri ce ne sarebbero stati. Compreso il più turpe, l’assassinio di uomini e della cittadinzna che rappresentavano, della loro libertà e della loro dignità con il corporativismo, il dirigismo,l’autarchia, il sindacalismo nazionale, la finzione infame della “collaborazione di classe”, l’assistenzialismo a industrie parassitarie,  il primato dell’interesse personale e privato su quello generale. 
Si pare proprio che la storia si avviti su se stessa come una spirale, che proceda come il suo angelo, andando avanti con la testa rivolta inesorabilmente all’indietro, che abbia inascoltata facoltà profetica. E che chi ne vuole trarre una lezione meriti il destino crudele di Cassandra. C’è chi, io tra quelli, vede accendersi sinistramente la crisi attuale dei lampi premonitori dei flashback, quelli della fine della repubblica di Weimar, dell’incendio del Reichstag, vede nel miope e iniquo grigiore di Monti, una allarmate identità col rigore del governo di Heinrich Brüning.  Non so se l'orrendo avvicendamento di despoti e tirannie con caratteristiche comuni sia una componente irrinunciabile dell'autobiografia nazionale, ma quel delitto, quel ritrovamento di un povero corpo in un caldo giorno di agosto in un bosco vicino a Roma assume un tremendo significato simbolico. Con una differenza con la nostra contemporaneità, pare che ci manchino nobili "prenci" alla ricerca della verità. 




lunedì 13 agosto 2012

Il sacrario del macellaio cialtrone

di Alberto Capece


Forse gli abitanti di Heidenheim an der Brenz cittadina di provincia del Baden Wurttemberg, nata da un forte militare romano fondato da Domiziano, avrebbero qualche ragione a erigere un monumento al loro più illustre concittadino, il Feldmareschall Erwin Rommel. Avrebbero anche la giustificazione della sua tardiva opposizione a Hitler. Ma non l'hanno fatto: in fondo Rommel è stato un grande comandante e a buttarlo in pasto alle polemiche e all'ambiguità non gli si fa un gran servizio.

Ma altri non la pensano così e hanno fatto un monumento a un macellaio, a un crudele cialtrone di cui il sunnominato Rommel pensava che fosse "una merda". che Mussolini disprezzava e che il ras  Farinacci accusò di codardia. Si, il monumento che Affile ha dedicato non a un suo cittadino, ma a un suo soggiornante, il maresciallo Rodolfo Graziani, scolpisce nel marmo il peggio di un Paese di cui con tutta evidenza gli affilesi si sentono orgogliosi pionieri. Il costoso marmo ricavato dai soldi pubblici non va solo ad onorare l'unico atto per cui il  maresciallo è ricordato, cioè l'adesione alla Rsi, grazie al quale l'uomo poté tornare a fare il suo unico mestiere, quello del  macellaio appunto, ma anche un inno all'ipocrisia  e alla scolpita onoranza  della classe dirigente cialtrona, incapace e vigliacca.

La cosa emerge chiarissima dalla biografia di Graziani, ciociaro doc di Filettino. Figlio di una famiglia borghese di stampo ancora papalino, era stato destinato dal padre, medico condotto, alla carriera ecclesiasistica, scelta che allora veniva fatta per i figli che non si ritenevano troppo brillanti. Ma il giovane, costretto al seminario di Subiaco, non si sentiva portato, preferiva la carriera militare. Certo l'accademia di Modena sarebbe stata l'ideale, perché da lì usciva la creme dell'esercito, ma era costosa e oltretutto era anche difficile comprendendo studi di chimica e ingegneria: molto meglio il reparto allievi ufficiali del 94° fanteria, di stanza a Roma. Insomma ufficiale de noantri, mentre il non statuato Rommel, ancora 14enne costruiva un aliante a grandezza naturale che riuscì persino a volare.

Il nostro invece prese quasi subito la via dell'Eritrea e nel 1908 eccolo tra gli ascari ad imparare arabo e tigrino, cosa che gli riuscì abbastanza bene perché -secondo quanto raccontano le cronache . rimase per quasi un anno fuori servizio a causa del morso di un serpente, una creatura alquanto tenace, pare di capire. Poi arriva la grande guerra e Graziani, nel frattempo diventato capitano, partecipa attivamente, anche se oscuramente, soprattutto per due o tre lievi ferite che lo costringono a lunghe inattività. Così mentre il giovane Erwin riceve la più alta onorificenza militare tedesca per aver sfondato il fronte a Caporetto, il nostro eroe statuato diventa colonnello honoris causa.

Ma il grande momento per lui deve ancora venire. Anzi pensa persino di lasciar perdere: trasferito a Parma durante il celebre biennio rosso, se la fa sotto, lascia divisa e incarichi per tentare la fortuna nel commercio con l'oriente. Con disastrosi risultati: forse il medico condotto che gli aveva dato i natali aveva visto giusto. Ritorna così nell'esercito proprio quando Erwin comincia a scrivere i suoi diari di guerra,  Infanterie greift an, fanteria all'attacco, che diventeranno un libro di testo per le accademie dell'esercito tedesco. E ancora oggi è un must obbligatorio anche a West Point.
Per tutti però arriva il momento d'oro e per Graziani giunge nel 1930, quando, soprattutto grazie alla sua conoscenza dell'arabo, viene scelto per reprimere l'insurrezione di Omar al-Muktar in Libia. Lì Rodolfo scopre la sua vocazione di macellaio quando se la deve vedere con i più deboli. Per domare l'insurrezione e isolarla comincia a deportare centinaia di migliaia di persone e a farle morire in gran numero nei campi di concentramento, sposta popolazioni da una parte all'altra del territorio, impicca Omar, fa pulizia etnica. La Libia è pacificata, pronta ad accogliere il governatore Balbo, la cui trasvolante popolarità faceva ombra a Mussolini.

Due anni più tardi troviamo il prode macellaio in Etiopia, al comando del fronte sud, assolutamente secondario nel quadro della campagna, cosa che non impedì al nostro statuato di attingere un grande primato: quello di essere il primo in assoluto ad usare i gas asfissianti: iprite e fosgene. Certo poca roba in confronto a quello che accadde a un anno dalla "conquista", quando Graziani, nel frattempo nominato vicerè, subisce un attentato e scatena una rappresaglia nella quale morirono secondo le fonti britanniche 3000 persone, senza contare la strage nel monastero di Debre Libanos dove furono passati per le armi tra 1200 e 1600 monaci, diaconi e catechisti. Secondo alcune ricostruzioni furono mandati a morte anche cantastorie e indovini che avevano predetto la fine del regime.

In questo caso il pugno di ferro rischiava di mettere in pericolo la conquista: l'ambiente era molto diverso dallo scatolone di sabbia della Libia, abitato allora da meno di 4 milioni di persone. Così Graziani fu richiamato in patria giusto in tempo per essere tra i primi illustri firmatari del manifesto della razza e grazie a questa fedele adesione alle servili ignominie di un duce ormai rimpicciolito da Hitler, tre giorni dopo lo scoppio della guerra in Polonia, fu nominato capo di stato maggiore dell'esercito. Una decisione anche politica perché quella carica lo metteva direttamente agli ordini di Mussolini  e non del re, ma la scelta fu tra le più infelici perché il boia Graziani sapeva fare il macellaio, ma non il comandante: spedito in Libia per preparare l'offensiva contro l'Egitto, subì una clamorosa e disastrosa sconfitta contro gli inglesi pur avendo un numero di uomini cinque volte superiore. Uomini che si batterono bene, ma purtroppo sotto una guida infame. Dire che pochi mesi prima di questa miserabile dimostrazione di incapacità, Erwin Rommel, al comando della Settima Panzer, con alla testa i reparti di Hasso von Manteuffel, sfondava il fronte francese sulle Ardenne.
Destini che si intrecciano perché sarà proprio Rommel a dover porre rimedio all'incapacità di quella "merda" di Graziani.  Nel frattempo il macellaio era caduto in disgrazia: il crollo militare era stato troppo clamoroso per poter essere nascosto. Ciano scrive nei suoi diari che Mussolini disse: "Ecco un altro uomo col quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo".

Fu anche istituita una commissione d'inchiesta che tuttavia non giunse ad alcuna conclusione, anche perché gli eventi incalzavano e le elite militari e civili cominciavano a squagliarsi. E dopo l'8 settembre fu tutto un fuggi fuggi. Per la Rsi appena fondata non rimaneva che il cialtrone estromesso appena due anni prima, tanto più che la guerra la combattevano i tedeschi mentre Graziani poteva far tesoro delle esperienze libiche ed etiopiche contro altri italiani: un utille idiota nelle mani di Kesserling. Singolare che proprio quando Graziani aderisce alla Repubblica sociale Erwin Rommel cominci a frequentare gli oppositori di Hitler.

Dopo la guerra il prode incapace fu condannato a 19 anni di carcere come criminale di guerra, anche se - a parte di eccidi di Libia ed Etiopia - le sue  imprese sono costate più al suo Paese che al nemico. E liberato dopo appena due anni, finisce ovviamente in Parlamento, tra i residuati repubblichini Ecco a chi costruiamo monumenti, spendendo 180 mila euro pubblici, donati dalla Regione Lazio. Certo la Polverini. così come il degno paese di Affile, si sarà data da fare: fra cialtroni di nessun  valore ci si intende.
E certo ad  Heidenheim non c'è la statua a Rommel, ma a nessuno verrebbe in mente di votare una cravattara ottusa e avida.