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domenica 26 agosto 2012

Il popolo si difende: rinasce la cassa Peota


di Anna Lombroso

L’ostaria de l’Anzolo Rafael era grande, disadorna e buia come un antro, illuminato dalle due finestre piccole affacciate sul campo irregolare e spoglio. Da una parte la ghiacciaia per conservare la “spuma”, la salettina con pochi tavoli e il bancone della mescita vicino alla cucina, il grande barattolo di vetro con dentro i croccanti e il piatto con le aciughete. Gli avventori con l’ombreta in man si sporgevano a guardare el paron, Michele, che si affaccendava a friggere le moleche, quei granchi lenti e maestosi, dalla polpa succulenta o a tagliare le cipolle per il saor, la marinatura sotto la quale si era conservato perfino il corpo santo del vescovo di torcello in attesa che si calmasse la “buriana”, per trasportarlo in San Marco con gran pompa.

Ma la zarina de l’Anzolo era la signora Paola, una botticella energica, autoritaria fino al dispotismo, che ti imponeva menu e bibite, selezionava la clientela come un buttafuori perché si vantava di andar a simpatia ma ad esser di suo gradimento erano in pochi. Così anche se la saletta era deserta mandava indietro i quattro milanesi in cerca di colore locale o gli americani sulle tracce dell’uomo di Finca Vigia, trattando quasi amorevolmente qualche indigeno sotto spirito o noi ragazzi squattrinati che chiedevamo lo spritz con un piattino di cicheti, uova sode e qualche schia, quei gamberetti grigi succulenti con la buccetta fina.

Era una vera autorità la siora Paola tanto che spettava a lei la tenuta della cassa peota, con il bussolotto in fondo al bancone e la lavagnetta coi nomi: la Cate in ritardo, Nane a posto, denunciati i ritardatari che rischiavano di non andar al garanghelo. Eh si, Venezia aveva già le sue banche etiche, inventate dalle donne e avviate con la cresta sulla spesa o impegnando le bucole d’oro o il copriletto ricamato al tombolo da bambine, sedute sulla seggiolina di paglia in rio terà o in campiello. Erano loro che avevano dato vita alla cassa peota, un rudimentale sistema di risparmio e investimento a capo del quale c’era una cassiera proprio come la parona dell’Anzolo Rafael, cui spettava il versamento per il fondo cassa, cui si aggiungevano tutti i mesi le quote delle altre donne e di qualche uomo, anziano e conosciuto, per mettere insieme il capitale. Le socie potevano così ottenere un prestito dalla cassa, per sanare qualche debito, far fronte a una spesa improvvisa: una malattia, una fia che se maridava, pochi capricci. E restituire la somma in rate settimanali entro sei mesi o un anno versando un piccolo interesse, che andava a finanziare proprio il garanghelo, sospirato come un rito agli dei dell’oblio dei pensieri e della miseria, da consumare in un giorno, andando via tra tutte donne sulla peota, il barcone che trasportava il carbone, con due uomini anziani ai remi, carica di vino e vivande. E via in laguna o per i canali fin verso il Brenta, fermandosi su qualche spiazzo erboso in riva a cantare: “la note xe bela, fa presto Nineta, andremo in barchetta, i freschi a ciapar”, e ballare dimentiche di tutto, ridenti e spettinate, per tornare la sera ebbre di vino e di effimera libertà.

Per secoli all’insaputa di mariti e padri le donne veneziane hanno nutrito i loro fondi segreti, le loro casse peote, come le scozzesi mogli di minatori, come le africane di cui parla Sen, investendo in fiducia, solidarietà, lealtà e aiuto reciproco: la cassiera era onorata dell’incarico e con onore governava prestiti e debiti.
Ma doveva succedere che l’enfasi dell’avidità, che la smania di accumulazione andassero all’attacco di questa forma solidale di mutua assistenza. E è stata proprio l’Unione Europea a chiedercelo, di metterle fuori legge, dichiarando “indebita” la loro “attività creditizia”e privandole di tutela giuridica; decretandone la fine ad eccezione della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Mogliano (una variante del sistema delle casse ma con gli stessi principi), costituita nell’Ottocento e tenuta a “battesimo” da Giuseppe Garibaldi (di cui si sostiene possedere la lettera di approvazione), che celebra l’anniversario della fondazione con la manifestazione dei “5 panaini”, pan e vin, distribuiti nelle varie borgate di Mogliano.

Sostituite o assimilate da esose casse rurali, da rapaci banche, da finanza creativa e da inesorabile strozzini legali o meno, sembravano scomparse: le ultime notizie che ne avevamo compariva in cronaca, quando cassieri infedeli scappavano col bottino, una volta perfin do miliardi! scriveva il Gazzettino.
Sembravano scomparse, ma si dice che sotto traccia, in qualche “bacaro” di Castello, la Rampa, per esempio, nella cantina giù della scala, o dietro Santa Margherita, in quelle osterie dove un tempo si riunivano i carbonari prima e i partigiani dopo, qualche cassa peota, c’era ancora, sotto forma di “benefica” o di cooperativa all’ombra di più corpulente organizzazioni di gondolieri o ambulanti. Ma c’era e c’è. E ne sorgono sempre di più, a Cannaregio, sulle belle fondamente nelle quali Canaletto ambientava la vita minima dei veneziani, quando la moneta era rara e si viveva di scambi con i “vovi”, le uova di campagna e le verdure di Sant’Erasmo. O di fianco a Rialto in quelle osterie dove i ricchi presto indebitati si mescolavano coi poveri come in un teatro spensierato nel quale recitavano la malinconia della caducità, del marcio e del fatiscente, il senso della corrosione, il morso del tempo e delle intemperie, il lutto e la solitudine, il silenzio morto e il vuoto della laguna.

Se vai a bere un’ombra ti succede di vedere la lavagnetta, il bussolotto e di incontrare qualcuno che ti invita alla cassa peota, come u modo di ritrovare l’antico civismo veneziano, quello che sembrava spingere l’intera popolazione, tutti quelli che c’erano nati o arrivati da ogni parte, a partecipare, come dice Le Corbusier, a una totalità - gesto gioioso e fecondo che rappresenta, in qualche modo, la quota d’amore dedicata a ogni cosa, la gioia di partecipare a un atto collettivo e amichevole, di ritrovare la solidarietà nella sfortuna e magari di andar a un garanghelo, alla faccia di chi ci vuole servi, alla faccia della paura, in ribelle libertà.

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