di Anna Lombroso
Era il 16 agosto del 1924, il vivace bastardino del brigadiere Ovidio
Caratelli zampettava annusando in giro nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano quando
si mise abbaiare grattando la terra intorno a un fagotto informe. È il corpo di
un uomo, sta là da tanto tempo che è impossibile il riconoscimento, ma tutti
quelli che accorrono pensando di essere in presenza di uno di quei delitti
estivi, delitti passionali, o di gelosia o di soldi, non hanno dubbi, quello è
il cadavere di Giacomo Matteotti, sequestrato sotto casa il 10 giugno e lasciato
là tra i rovi e gli sterpi dopo l’esecuzione.
La condanna a morte se
l’era emessa da sé, il 9 giugno, con un discorso alla Camera, una denuncia
appassionata e potente contro il regime, proferita davanti a quell’aula che
Gramsci descrive con lucida sapienza: “da
organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e
sull'Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere
e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla,
asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni
prestigio presso le masse popolari”. La piccola borghesia, “una classe di
chiacchieroni, di scettici, di corrotti, che si era asservita al potere governativo
attraverso la corruzione parlamentare”, muta la forma della sua prestazione
d'opera, diventa antiparlamentare e conviene di corrompere anche la piazza. Lo
Stato ufficiale è indebolito e esaurito dalla guerra e sono in rovina gli altri
istituti, i suoi fondamentali sostegni: l'esercito, la polizia, la
magistratura.
Sempre Gramsci: “corruzione e rovina sono condotte in pura perdita, senza
alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di
un nuovo Stato: ma il "popolo delle scimmie" il quale crede di essere
superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta
l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario,
tutta la sapienza di governo, è caratterizzato appunto dall'incapacità organica
a darsi una legge, a fondare uno Stato)”. Il padronato, per difendersi,
finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale per mascherare la sua
reale natura, deve assumere atteggiamenti politici "rivoluzionari" e
disgregare le istituzioni dello Stato. così la classe proprietaria ripete, nei
riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi
del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe
rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici
del "popolo delle scimmie" attuando una modernizzazione senza
cambiamenti strutturali e senza rischi.
A quello serve la Ceka
contro la quale è indirizzata l’invettiva di Matteotti, il "corpo di vigilanza" isituito nel
gennaio da Mussolini, che si era ispirato a Lenin a quella C' cresvicianaia
Komissija, piu' tardi definita da Stalin "la spada nuda del
proletariato" creata a difesa del potere bolscevico e quindi anche per
mettere a tacere i dissidenti. Disinteressato alle sorti del proletariato,
Mussolini ne voleva fare uno strumento per la sua personale sicurezza, per la
sua privata inquisizione, per sostituire con un corpo speciale gestito dai suoi
fedeli, gli organismi di sicurezza e investigativi dello Stato, in modo da
perfezionare il controllo dei controllori.
Ma Matteotti sapeva bene
che quella Ceka, il cui nome era stato inventato proprio per evocare una
potenza segreta, inafferrabile, implacabile, serviva anche come braccio
operativo e non solo per portare a compimento i brogli e la strategia
dell’intimidazione e della minaccia squadrista. Era quello il mandato di
Mussolini per il capo della polizia De Bono, il quadrumviro Balbo, il
segretario amministrativo del Pnf Marinelli, il capo dell' ufficio stampa della
presidenza del Consiglio Rossi, il membro del Direttorio Forges Davanzati,
riuniti il 10 gennaio 1924, nel suo appartamento di via Rasella proprio per la
costituzione di una "squadra di polizia interna". Ma non solo. Ad
affiancare il designato Dumini, preceduto dalla sua fama di killer feroce, c’è quel certo Marinelli che ha le mani in pasta, nei quattrini leciti
e illeciti, una sorta di tesoriere, pronto a prestare la sua opera e la sua
competenza al servizio degli affari sporchi già collaudati di casa Savoia e di
quelli che il regime ha già cominciato ad avviare con profitto.
Che la Ceka non fosse un
corpo deviato e ignoto a Mussolini lo prova la frase pronunciata il 30 maggio
dal duce dopo il discorso con cui l’irriducibile Matteotti aveva denunciato in
parlamento le violenze e i brogli dei fascisti nelle elezioni del 1924:
"Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell' uomo, dopo quel discorso, non
dovrebbe piu' circolare...", sdegnato dall’inefficienza inaspettata di
quell’organizzazione fatta di squadracce di delinquenti zelantemente efferate,
che si è già lasciata alle spalle una scia di sangue, dall' assassinio di Don
Minzoni alla prima bastonatura di Amendola, all' assalto alla villa di Nitti. Dumini deve essere all’altezza della sua fama,
perbacco, quella di un violento, sadico, ebbro di arroganet sopraffazione, che
si definisce così: "Dumini, otto omicidi", rivendicando di essere stato protagonista della strage di
Foiano di Chiana nel 1921 e della rappresaglia all' eccidio di Sarzana in
quello stesso anno, di avere agito agli ordini del ministro degli Interni
fascista e nel suo libro paga, per infiltrarsi nell' opposizione in esilio a
Parigi e denunciarne i capi, di avere trafficato in armi e di essere
disponibile per ogni basso servizio, dalla corruzione, alla punizione fino al
delitto, fornito di una tessera di giornalista parlamentare con la quale
entrare alla Camera, strafottente, irridente e intimidatorio
Quella invettiva spericolata,
lucida e luminosamente imprudente, che lo condanna a morte il 9 giugno, Matteotti
la pronuncia davanti a una Camera ostile, in un´aula inferocita che lo interrompe a ogni
frase. Alla fine, esausto, si abbatte sul banco, e a un collega (anche lui
coraggioso) che si congratula risponde scuotendo la testa: «Però adesso voi
preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Non avrà neanche quella. Il
10 giugno sul lungotevere mentre a piedi si dirige verso il Parlamento, viene aggredito, caricato
su una macchina, ucciso da Dumini e gli altri.
« Or, se a ascoltar mi state / canto il delitto di quei galeotti
/che con gran rabbia vollero trucidare / il deputato Giacomo Matteotti / Erano
tanti:/ Viola Rossi e Dumin, / il capo della banda / Benito Mussolin.» La
canzone viene canticchiata piano già a due giorni dalla scomparsa del deputato,
denunciata dalla moglie Velia che dopo il ritrovamento con fierezza rifiuta la
pompa del funerale di stato offerta dal mandante, che alla Camera il successivo
3 gennaio prima respinge l'accusa di un suo coinvolgimento nel delitto
per poi assumersi, anzi rivendicare, la responsabilità politica del clima di
violenza in cui tutti gli assassinii e le violenze compiute in quegli anni erano maturati, per riaffermare, di fronte ad alleati ed
avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo: “ Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare
sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e
al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto …… Se tutte le violenze sono state il risultato
di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la
responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io
l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi”.
In quei mesi, dal
ritrovamento di Matteotti ad allora, scrive Ruggero Zangrandi, un’onda di
rivolta aveva squassato il Paese e il panico si impadronì degli stessi
fascisti, gli oppositori “costituzionali” si ritirano sull’Aventino, ma si
fanno giocare dal re e dalle sue promesse, finché in quel 3 gennaio Mussolini
completa il colpo di Stato, denuncia l’Aventino come sedizioso, mette in
licenza la Camera, abolisce la libertà di stampa, promulga le sue leggi ad
personam destinate a trasformare l’informe moto reazionario del fascismo in
regime totalitario. Qualcuno è folgorato dall’assassinio di Matteotti: De
Nicola che aveva dichiarato, proprio in quell’aprile, l’On. Mussolini appare l’uomo dotato di saldi
propositi e della vigoria necessaria per tradurli in azione restituire allo
Stato l’autorità che aveva perduto e al governo il prestigio che aveva
compromesso….”, si ritira a vita
privata. De Gasperi che in occasione del voto sulla riforma elettorale, indusse
i deputati popolari e limitarsi all’astensione, concorrendo all’approvazione,
passa all’opposizione e si ritira in Vaticano, appartandosi dalla politica
attiva.
Prima e anche dopo gran
parte del ceto politico è inerte o si fa contaminare: alcuni si illudono,
forse, di normalizzare la situazione. Altri al momento del voto alla Camera si
limitano all’astensione. I no sono 6 in
tutto. Tra i si spiccano i cattolici “nazionali”, i liberali di Salandra, molti
insospettabili. Un anno dopo Mussolini istituisce il tribunale speciale e
la pena di morte, elimina l’opposizione alla Camera mentre “nomina” 94 nuovi
senatori, compresi intellettuali, musicisti, studiosi e qualche “tecnico”: ammiragli,
generali e banchieri.
Con Matteotti è stata
seppellita la possibilità - o la volontà - di esercitare un’opposizione
parlamentare, ma anche la denuncia del malaffare che usa il fascismo per
proliferare e che il fascismo alimenta per promuoversi, generare consenso, comprare
propaganda.
Il deputato macellato
aveva denunciato qualcosa che per anni è stato oggetto di una colpevole
rimozione, la tremenda endemica corruzione, la componente di criminalità
economica che cresce sempre di più man mano che il regime occupa lo stato, la
pubblica amministrazione, la stampa, in accordo o in concorrenza leale con la
monarchia, in perfetta continuità con la catena di affari loschi che hanno
segnato la vita economica e politica dell’Italia unita, punteggiata di
scandali: l’appalto del monopolio dei tabacchi, concluso con la sanatoria pro
bono arbitrio, votata alla Camera; quella della Banca Romana: misteriosi
episodi, come quelle legate al regicidio di Umberto, che mette in luce le
collusioni tra potere giudiziario e classe dirigente, anche in materia di
illeciti; gli aiuti improbabili all’industria siderurgica. E il fosco affaire
Sinclair, del quale Matteotti sapeva e sul quale indagava e che aveva fatto
oggetto di denunce pubbliche. Henry
Sinclair, petroliere e finanziere d’assalto abituato a aggirare a suon di
dollari e di favori procedure burocratiche, politiche, diplomatiche,
parlamentari di casa sua e dell’altro mezzo mondo, non si arrendeva all’ipotesi
che la sua Sinclair Oil, potente compagnia petrolifera, sostenuta da
alcuni tra i più grossi gruppi finanziari di Wall Street, che facevano capo al
cosiddetto Money Trust newyorchese, di cui la banca di Rockefeller era
autorevolissima esponente, fosse insidiata dall’arrivo in Italia dell’Anglo
Persian, concorrente nella concessione per attività di esplorazione in Sicilia
ed Emilia, promessa dal re e garantita da Mussolini.
Lo storico inglese Denis Mack Smith ha scritto: «Uno dei motivi che
portarono all’uccisione del parlamentare stava proprio nel fatto che egli si
era recato in Inghilterra con informazioni sul sistema di corruzione che stava
contribuendo a finanziare la rivoluzione fascista: una tale pericolosa fonte di
informazione doveva essere soppressa a tutti i costi». Matteotti stava allestendo un dossier sugli scandali di cui erano
protagonisti gli uomini di Mussolini, aveva dichiarato di avere in mano le prove della corruzione
nell’affare Sinclair, che compromettevano la Corona o ambienti ad essa molto
vicini. La bufera politica
scoppiata col delitto Matteotti convince Mussolini – dopo che la commissione
parlamentare aveva minacciato un pronunciamento negativo – a prendere
l’iniziativa di una rescissione dell’accordo già stipulato con la Sinclair.
Per anni è stata
accreditata una menzogna: il Fascismo era, sì, una dittatura, che
aveva strappato con violenza la libertà agli italiani, aveva eliminato ogni
opposizione e dissenso, ogni libertà di stampa e partito politico, ma i treni
arrivavano puntuali e i fascisti non rubavano, non erano corrotti, non corrompevano,
non favorivano, non piegavano lo Stato ai propri interessi. Qualcuno già nel 1924 aveva profetizzato
l’egemonia di un regime vocato e segnato da truffe e speculazioni, arricchimenti
improvvisi e profitti illeciti, malversazioni, scandali, carriere inspiegabili,
insomma, panni sporchi, affari sporchi, sporche alleanze e sporchi ricatti. Per
un affaire Sinclair andatao male altri ce ne sarebbero stati. Compreso il più
turpe, l’assassinio di uomini e della cittadinzna che rappresentavano, della loro
libertà e della loro dignità con il corporativismo, il dirigismo,l’autarchia,
il sindacalismo nazionale, la finzione infame della “collaborazione di classe”,
l’assistenzialismo a industrie parassitarie,
il primato dell’interesse personale e privato su quello generale.
Si pare proprio che la
storia si avviti su se stessa come una spirale, che proceda come il suo angelo,
andando avanti con la testa rivolta inesorabilmente all’indietro, che abbia
inascoltata facoltà profetica. E che chi ne vuole trarre una lezione meriti il
destino crudele di Cassandra. C’è chi, io tra quelli, vede accendersi
sinistramente la crisi attuale dei lampi premonitori dei flashback, quelli della fine della repubblica di Weimar,
dell’incendio del Reichstag, vede nel miope e iniquo grigiore di Monti, una allarmate identità col rigore del
governo di Heinrich Brüning. Non so se l'orrendo
avvicendamento di despoti e tirannie con caratteristiche comuni sia una
componente irrinunciabile dell'autobiografia nazionale, ma quel delitto, quel ritrovamento di un
povero corpo in un caldo giorno di agosto in un bosco vicino a Roma
assume un tremendo significato simbolico. Con una differenza con la nostra
contemporaneità, pare che ci manchino nobili "prenci" alla
ricerca della verità.
.. e venne la notte, poi un bagno di sangue per tornare a vedere il sole.....
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