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venerdì 17 agosto 2012

La storia sono loro: da Matteotti all'Ilva il lungo filo di corruzione (Prima puntata)


di Anna Lombroso

Era il 16 agosto del 1924, il vivace bastardino del brigadiere Ovidio Caratelli zampettava annusando in giro nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano quando si mise abbaiare grattando la terra intorno a un fagotto informe. È il corpo di un uomo, sta là da tanto tempo che è impossibile il riconoscimento, ma tutti quelli che accorrono pensando di essere in presenza di uno di quei delitti estivi, delitti passionali, o di gelosia o di soldi, non hanno dubbi, quello è il cadavere di Giacomo Matteotti, sequestrato sotto casa il 10 giugno e lasciato là tra i rovi e gli sterpi dopo l’esecuzione.

La condanna a morte se l’era emessa da sé, il 9 giugno, con un discorso alla Camera, una denuncia appassionata e potente contro il regime, proferita davanti a quell’aula che Gramsci descrive con lucida sapienza: “da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull'Amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari”. La piccola borghesia, “una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare”, muta la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e conviene di corrompere anche la piazza. Lo Stato ufficiale è indebolito e esaurito dalla guerra e sono in rovina gli altri istituti, i suoi fondamentali sostegni: l'esercito, la polizia, la magistratura.

Sempre Gramsci: “corruzione e rovina sono condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il "popolo delle scimmie" il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, è caratterizzato appunto dall'incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato)”. Il padronato, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici "rivoluzionari" e disgregare le istituzioni dello Stato. così la classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del "popolo delle scimmie" attuando una modernizzazione senza cambiamenti strutturali e senza rischi.

A quello serve la Ceka contro la quale è indirizzata l’invettiva di Matteotti,  il "corpo di vigilanza" isituito nel gennaio da Mussolini, che si era ispirato a Lenin a quella C' cresvicianaia Komissija, piu' tardi definita da Stalin "la spada nuda del proletariato" creata a difesa del potere bolscevico e quindi anche per mettere a tacere i dissidenti. Disinteressato alle sorti del proletariato, Mussolini ne voleva fare uno strumento per la sua personale sicurezza, per la sua privata inquisizione, per sostituire con un corpo speciale gestito dai suoi fedeli, gli organismi di sicurezza e investigativi dello Stato, in modo da perfezionare il controllo dei controllori.
Ma Matteotti sapeva bene che quella Ceka, il cui nome era stato inventato proprio per evocare una potenza segreta, inafferrabile, implacabile, serviva anche come braccio operativo e non solo per portare a compimento i brogli e la strategia dell’intimidazione e della minaccia squadrista. Era quello il mandato di Mussolini per il capo della polizia De Bono, il quadrumviro Balbo, il segretario amministrativo del Pnf Marinelli, il capo dell' ufficio stampa della presidenza del Consiglio Rossi, il membro del Direttorio Forges Davanzati, riuniti il 10 gennaio 1924, nel suo appartamento di via Rasella proprio per la costituzione di una "squadra di polizia interna". Ma non solo. Ad affiancare il designato Dumini, preceduto dalla sua fama di  killer feroce, c’è quel certo Marinelli  che ha le mani in pasta, nei quattrini leciti e illeciti, una sorta di tesoriere, pronto a prestare la sua opera e la sua competenza al servizio degli affari sporchi già collaudati di casa Savoia e di quelli che il regime ha già cominciato ad avviare con profitto.

Che la Ceka non fosse un corpo deviato e ignoto a Mussolini lo prova la frase pronunciata il 30 maggio dal duce dopo il discorso con cui l’irriducibile Matteotti aveva denunciato in parlamento le violenze e i brogli dei fascisti nelle elezioni del 1924: "Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell' uomo, dopo quel discorso, non dovrebbe piu' circolare...", sdegnato dall’inefficienza inaspettata di quell’organizzazione fatta di squadracce di delinquenti zelantemente efferate, che si è già lasciata alle spalle una scia di sangue, dall' assassinio di Don Minzoni alla prima bastonatura di Amendola, all' assalto alla villa di Nitti.  Dumini deve essere all’altezza della sua fama, perbacco, quella di un violento, sadico, ebbro di arroganet sopraffazione, che si definisce così: "Dumini, otto omicidi", rivendicando  di essere stato protagonista della strage di Foiano di Chiana nel 1921 e della rappresaglia all' eccidio di Sarzana in quello stesso anno, di avere agito agli ordini del ministro degli Interni fascista e nel suo libro paga, per infiltrarsi nell' opposizione in esilio a Parigi e denunciarne i capi, di avere trafficato in armi e di essere disponibile per ogni basso servizio, dalla corruzione, alla punizione fino al delitto, fornito di una tessera di giornalista parlamentare con la quale entrare alla Camera, strafottente, irridente e intimidatorio

Quella invettiva spericolata, lucida e luminosamente imprudente, che lo condanna a morte il 9 giugno, Matteotti la pronuncia davanti a una Camera ostile,  in un´aula inferocita che lo interrompe a ogni frase. Alla fine, esausto, si abbatte sul banco, e a un collega (anche lui coraggioso) che si congratula risponde scuotendo la testa: «Però adesso voi preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Non avrà neanche quella. Il 10 giugno sul lungotevere mentre a piedi si dirige  verso il Parlamento, viene aggredito, caricato su una macchina, ucciso da Dumini e gli altri.
« Or, se a ascoltar mi state / canto il delitto di quei galeotti /che con gran rabbia vollero trucidare / il deputato Giacomo Matteotti / Erano tanti:/ Viola Rossi e Dumin, / il capo della banda / Benito Mussolin.»  La canzone viene canticchiata piano già a due giorni dalla scomparsa del deputato, denunciata dalla moglie Velia che dopo il ritrovamento con fierezza rifiuta la pompa del funerale di stato offerta dal mandante, che alla Camera il successivo 3 gennaio prima respinge l'accusa di un suo coinvolgimento nel delitto per poi assumersi, anzi rivendicare, la responsabilità politica del clima di violenza in cui tutti gli assassinii e le violenze  compiute in quegli anni erano maturati,  per riaffermare, di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo: “ Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto ……   Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi”.

In quei mesi, dal ritrovamento di Matteotti ad allora, scrive Ruggero Zangrandi, un’onda di rivolta aveva squassato il Paese e il panico si impadronì degli stessi fascisti, gli oppositori “costituzionali” si ritirano sull’Aventino, ma si fanno giocare dal re e dalle sue promesse, finché in quel 3 gennaio Mussolini completa il colpo di Stato, denuncia l’Aventino come sedizioso, mette in licenza la Camera, abolisce la libertà di stampa, promulga le sue leggi ad personam destinate a trasformare l’informe moto reazionario del fascismo in regime totalitario. Qualcuno è folgorato dall’assassinio di Matteotti: De Nicola che aveva dichiarato, proprio in quell’aprile,  l’On. Mussolini appare l’uomo dotato di saldi propositi e della vigoria necessaria per tradurli in azione restituire allo Stato l’autorità che aveva perduto e al governo il prestigio che aveva compromesso….”,  si ritira a vita privata. De Gasperi che in occasione del voto sulla riforma elettorale, indusse i deputati popolari e limitarsi all’astensione, concorrendo all’approvazione, passa all’opposizione e si ritira in Vaticano, appartandosi dalla politica attiva.

Prima e anche dopo gran parte del ceto politico è inerte o si fa contaminare: alcuni si illudono, forse, di normalizzare la situazione. Altri al momento del voto alla Camera si limitano  all’astensione. I no sono 6 in tutto. Tra i si spiccano i cattolici “nazionali”, i liberali di Salandra, molti insospettabili. Un anno dopo Mussolini istituisce il tribunale speciale e la pena di morte, elimina l’opposizione alla Camera mentre “nomina” 94 nuovi senatori, compresi intellettuali, musicisti, studiosi e qualche “tecnico”: ammiragli, generali e banchieri.
Con Matteotti è stata seppellita la possibilità - o la volontà - di esercitare un’opposizione parlamentare, ma anche la denuncia del malaffare che usa il fascismo per proliferare e che il fascismo alimenta per promuoversi, generare consenso, comprare propaganda.

Il deputato macellato aveva denunciato qualcosa che per anni è stato oggetto di una colpevole rimozione, la tremenda endemica corruzione, la componente di criminalità economica che cresce sempre di più man mano che il regime occupa lo stato, la pubblica amministrazione, la stampa, in accordo o in concorrenza leale con la monarchia, in perfetta continuità con la catena di affari loschi che hanno segnato la vita economica e politica dell’Italia unita, punteggiata di scandali: l’appalto del monopolio dei tabacchi, concluso con la sanatoria pro bono arbitrio, votata alla Camera; quella della Banca Romana: misteriosi episodi, come quelle legate al regicidio di Umberto, che mette in luce le collusioni tra potere giudiziario e classe dirigente, anche in materia di illeciti; gli aiuti improbabili all’industria siderurgica. E il fosco affaire Sinclair, del quale Matteotti sapeva e sul quale indagava e che aveva fatto oggetto di denunce pubbliche. Henry Sinclair, petroliere e finanziere d’assalto abituato a aggirare a suon di dollari e di favori procedure burocratiche, politiche, diplomatiche, parlamentari di casa sua e dell’altro mezzo mondo, non si arrendeva all’ipotesi che la sua Sinclair Oil,   potente compagnia petrolifera, sostenuta da alcuni tra i più grossi gruppi finanziari di Wall Street, che facevano capo al cosiddetto Money Trust newyorchese, di cui la banca di Rockefeller era autorevolissima esponente, fosse insidiata dall’arrivo in Italia dell’Anglo Persian, concorrente nella concessione per attività di esplorazione in Sicilia ed Emilia, promessa dal re e garantita da Mussolini.
Lo storico inglese Denis Mack Smith ha scritto: «Uno dei motivi che portarono all’uccisione del parlamentare stava proprio nel fatto che egli si era recato in Inghilterra con informazioni sul sistema di corruzione che stava contribuendo a finanziare la rivoluzione fascista: una tale pericolosa fonte di informazione doveva essere soppressa a tutti i costi». Matteotti stava allestendo un dossier sugli scandali di cui erano protagonisti gli uomini di Mussolini, aveva dichiarato  di avere in mano le prove della corruzione nell’affare Sinclair, che compromettevano la Corona o ambienti ad essa molto vicini. La  bufera politica scoppiata col delitto Matteotti convince Mussolini – dopo che la commissione parlamentare aveva minacciato un pronunciamento negativo – a prendere l’iniziativa di una rescissione dell’accordo già stipulato con la Sinclair.

Per anni è stata accreditata una menzogna:  il Fascismo era, sì, una dittatura, che aveva strappato con violenza la libertà agli italiani, aveva eliminato ogni opposizione e dissenso, ogni libertà di stampa e partito politico, ma i treni arrivavano puntuali e i fascisti non rubavano, non erano corrotti, non corrompevano, non favorivano, non piegavano lo Stato ai propri interessi. Qualcuno già nel 1924 aveva profetizzato l’egemonia di un regime vocato e segnato da  truffe e speculazioni, arricchimenti improvvisi e profitti illeciti, malversazioni, scandali, carriere inspiegabili, insomma, panni sporchi, affari sporchi, sporche alleanze e sporchi ricatti. Per un affaire Sinclair andatao male altri ce ne sarebbero stati. Compreso il più turpe, l’assassinio di uomini e della cittadinzna che rappresentavano, della loro libertà e della loro dignità con il corporativismo, il dirigismo,l’autarchia, il sindacalismo nazionale, la finzione infame della “collaborazione di classe”, l’assistenzialismo a industrie parassitarie,  il primato dell’interesse personale e privato su quello generale. 
Si pare proprio che la storia si avviti su se stessa come una spirale, che proceda come il suo angelo, andando avanti con la testa rivolta inesorabilmente all’indietro, che abbia inascoltata facoltà profetica. E che chi ne vuole trarre una lezione meriti il destino crudele di Cassandra. C’è chi, io tra quelli, vede accendersi sinistramente la crisi attuale dei lampi premonitori dei flashback, quelli della fine della repubblica di Weimar, dell’incendio del Reichstag, vede nel miope e iniquo grigiore di Monti, una allarmate identità col rigore del governo di Heinrich Brüning.  Non so se l'orrendo avvicendamento di despoti e tirannie con caratteristiche comuni sia una componente irrinunciabile dell'autobiografia nazionale, ma quel delitto, quel ritrovamento di un povero corpo in un caldo giorno di agosto in un bosco vicino a Roma assume un tremendo significato simbolico. Con una differenza con la nostra contemporaneità, pare che ci manchino nobili "prenci" alla ricerca della verità. 




domenica 8 gennaio 2012

Rivolta ungherese, silenzio europeo


di Agi Berta

1000 dentro, 100000 fuori. Ma le televisioni non hanno trasmesso nulla sulla più grande manifestazione dopo il ’56 in Ungheria. E’ un paradosso: ho avvisato io dall’Italia molti miei amici, alcuni dei quali pur vivendo a Budapest e non ne sapevano niente!  La tv nazionale si è giustificata il giorno dopo quando il mondo intero trasmetteva foto, interviste della straordinaria folla scesa in piazza, con pretesti  assurdi e incredibili: abbiamo fatto tardi, non siamo riusciti a trovare un posto buono per le riprese, cosi abbiamo ripreso solo alcuni poliziotti e un paio di persone. 

I politici che festeggiavano la nuova costituzione hanno  lasciato il teatro dell’Opera dove si svolgeva la serata di gala dall’uscita posteriore. E’ indicativa la dichiarazione del capo dello stato, Schmitt (un ottimo sportivo, ma per il resto un perfetto ebete, creatura di Orban), dopo la serata di gala: “Tutti gli ungheresi veri stanno festeggiando con noi! “… e poi anche lui, è uscito dalla porta di dietro. 

Questa ì l’Ungheria di oggi, quella dominata dalla destra. E dalla sua vittoria nel 2010 che cerco di attirare l’attenzione sull’Ungheria, purtroppo con scarsi risultati, perché le mie segnalazioni  erano di  ordine politico: il rinascente nazionalismo e lo sciovinismo imperniato sull’idea di restaurazione della “grande Ungheria” cui primo passo è stato l’estensione del diritto di voto ai cittadini romeni, slovacchi  di etnia ungherese. Su questo terreno si è innestata la  politica antirom senza nessuna voglia di integrazione, la rinascita virulenta dell’ antisemitismo, l’uso strumentale della destra neonazista frenata a parole, ma liberata nei fatti  tanto che tutte le sue proposte sono state accolte.

Così  la nuova costituzione è basata su pilastri che già abbiamo conosciuto nel 1933: dio patria , famiglia (la protezione del feto dal momento del concepimento!). Non solo, ma anche sull'imbavagliamento della stampa grazie a una legge liberticida che ha portato al licenziamento di circa 8-900 lavoratori dei media ,prevalentemente quelli che non appoggiavano la linea del governo. Destino peraltro riservato anche ai dipendenti  degli enti statali, comunali o regionali, se non erano d’accordo col governo: molti miei amici sono stati licenziati entro luglio 2011. Dopo questa  data hanno dovuto frenare i licenziamenti perché c’è stata una seppur blanda reazione sindacale collettiva. E tuttavia la paura è diffusa nel Paese, tanto che molte persone licenziate nemmeno osavano chiedere protezione sindacale perché temevano che non avrebbero trovato mai più un lavoro se venivano considerati “ poco affidabili, non sufficientemente servi”.

 Del resto fare opposizione anche nello stesso Parlamento è diventato difficile: nuove norme  prevedono l’impossibilità di dibattito nel caso di leggi “urgenti”. Cosi il 23 dicembre il parlamento ha emesso  17 leggi in un solo giorno, senza alcun dibattito. E il 2 e 3 gennaio altre 7. L’opposizione è totalmente paralizzata, e quando alcuni deputati hanno protestato, sono stati semplicemente arrestati…e rilasciati poche ore dopo.
Ultimo atto: la chiusura del Klubradio, l’unica stazione radiofonica libera del paese. 

La situazione è tale che forse è resa meglio da una piccola notazione personale:  l'altro ieri c’era una conferenza stampa al Parlamento dopo una tavola rotonda tra vari ministri e il direttore della banca centrale. Ebbene al telefono avevano negato semplicemente l’esistenza di questa conferenza cui avevano accesso solo i giornalisti delle testate di destra che a loro volta avevano scritto articoli mielosi e lecchini, tralasciando un solo particolare: il direttore della banca centrale aveva lasciato la riunione dopo un’ora, incavolato nero.

E veniamo così alla crisi e alla piazza. Finché i problemi erano di ordine politico nessuno se ne fregava. Non la UE, non i media internazionali, tranne forse gli americani che a più riprese avevano cercato richiamare l’Ungheria al rispetto dei  valori democratici. Invano. Come è passato sotto silenzio l’accorato appello della Heller sul sostegno dei media.(qui il colloquio di Agi Berta con la Heller del settembre scorso)  Infatti la gente in Ungheria ignora cosa stia accadendo. Ignora: solo pochi leggono la stampa e i pochi giornali ancora indipendenti (HTV, Nepszabadsag, 168 ora),  il resto si affida ai tg, alla radio dove perfino oggi trasmettono notizie tranqullizzanti, proclami all’unità nazionale, e messaggi subdoli circa il sentimento anti magiaro del mondo. E la gente ci crede.
Ma una politica autarchica, una politica miope prima o poi si fa sentire anche al livello economico ed eccoci a due declassamenti (il terzo quello di Finch è di ieri) che considerano l’Ungheria un Paese spazzatura, dove gli investimenti sono sconsigliati.

In contemporanea  è iniziata un’ azione dalla base, dai sindacati, dalle associazioni civili. La grande manifestazione del 2 gennaio è il risultato di questa organizzazione svolta prevalentemente sul web. Chissà che non cominci il momento del riscatto.