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venerdì 21 settembre 2012

I barbari di dentro all'assalto della bellezza


di Anna Lombroso

In primo piano il Battistero degli Ariani a Ravenna e più in là il "muro di Droctulfo"
“In questo tumulo è chiuso, ma solo con il corpo, Droctulfo
perché, grazie ai suoi meriti, egli vive in tutta la città”.
Borges inizia così il suo racconto Storia del guerriero e della prigioniera: “A pagina 278 del libro La Poesia (Bari, 1942), Croce, riassumendo un testo latino dello storico Paolo Diacono, narra la sorte e cita l’epitaffio di Droctulft, il guerriero longobardo che, durante l’assedio di Ravenna, abbandonò i suoi e morì difendendo la città che prima aveva attaccata. “Gli abitanti di Ravenna gli dettero sepoltura in un tempio e composero un epitaffio nel quale espressero la loro gratitudine…”.

Droctulf, che “mentre Faroaldo con frode trattiene ancora Classe, egli prepara le armi e la flotta per liberarla”, secondo Borges non era mai stato illuminato dall’oro dei mosaici e non era mai stato folgorato dalla bellezza, finchè non giunse a Ravenna per metterla a ferro e fuoco. Non conosceva altra architettura che quella si reggeva sui rozzi, tristi e monoliti eretti nelle terre desolate da cui proveniva. Era cresciuto al culto della potenza e della grandezza di Roma, che escludevano magnificenza, eleganza, creatività impiegate al solo scopo di rendere migliori e di far sognare.
Al momento di violare le porte di Ravenna, invece, Droctulft il barbaro viene preso per incanto dalla civiltà, dalla bellezza e si converte ad esse.

La paura dell’invasione e della contaminazione combinata con il dispregio altezzoso verso i barbari è la cifra della cultura occidentale, l’incubo della fine della civiltà travolta dalla rozzezza ferina dell’altro da noi. Oggi grazie a benefici contagi di culture ma anche in virtù di malefiche corruzioni indigene, di aberranti distorsioni endogene dei nostri capisaldi, non possiamo certo dare per scontato che l’invasione venga da fuori.
Drocfult difende Ravenna anche da se stesso, dalla sua indole efferata e dal suo istinto ferino, ammansito dalla bellezza, persuaso della sua inviolabilità, addomesticato dalla sua potenza demiurgica.
Ma le invasioni arrivano da dentro, quella che ormai impropriamente chiamiamo civiltà, in attesa dell’implosione, produce i suoi barbari che si stringono minacciosi, crudeli e analfabeti di pensiero e ragione intorno alla cittadella, interessati solo a sfruttarne le ricchezze e i giacimenti, a rivenderli a altre tribù. Sono gli stessi che oltraggiano e rifiutano chi arriva, gli stessi che danno dell’analfabeta a chi parla altre lingue o comprende nuovi linguaggi che raccontano come potrebbe essere il mondo di domani. Perché la loro disposizione naturale è alla conservazione dei privilegi senza memoria dei diritti, alla gerontocrazia dell’intelletto senza rispetto dell’immaginario libero di altri, alla soddisfazione dei loro bisogni senza comprensione per l’aspettativa di felicità.

Ci vorrebbe Droctulft a difendere Brera dai veri barbari per essere stato irraggiato nelle sue tenebre dalle luci di Mantegna, Raffaello, Bellini, Rubens, Longhi, Fattori, Morandi, Modigliani.
E un primitivo come lui a parlare vecchi e nuovi idiomi, contro il gergo, gli slogan e le litanie della teocrazia del mercato, a recitare i versi della libertà, contro la sopraffazione dei diritti, a fare i gesti del lavoro e le carezze dell’amicizia, contro la rottura dei vincoli di solidarietà.
I barbari sono usciti dal sottosuolo nel quale stavano riparati al caldo per arraffare di più, per accumulare altre ricchezze e privilegi, ma anche per spogliarci di tutto, per renderci corpi nudi, esposti e ricattabili, senza memoria, senza identità di cittadini. Ci tolgono i beni personali e quelli pubblici: case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, ma anche fabbriche teatro di lavoro e conquiste, prati dove abbiamo giocato da bambini, campi dove i vecchi giocavano alle bocce: l’è longa, l’è curta, campi seminati con antichi gesti lenti, per offrirli alla speculazione. Come se fossero vecchi muri, stanze cadenti, posti abbandonati e non la nostra geografia, la bellezza dell’Italia, la sua fisionomia e la sua identità nel mondo, la sua ricchezza inalienabile presente e futura, che nessun miracolo tecnologico può riprodurre, che non può essere minata dalla concorrenza delle manifatture dei nuovi imperi mercantili. E che oggi, paradossalmente, possono essere distrutti dall’interno, dal dispotismo dei neo barbari. Ricchezze condannate a perdere la loro natura e fisionomia di bene comune, di patrimonio collettivo, per essere smembrate e accaparrate da mani privati, quelle di coloro che hanno fatto le loro fortune nelle scorribande piratesche della finanza creativa.

Sono “roba” nostra, questi beni, che nel corso degli anni sono stati tutelati e mantenuti grazie all’intervento pubblico e la fiscalità generale, col concorso materiale di tutti gli italiani, come è giusto sia di un patrimonio che appartiene a tutti noi, non solo come lascito della nostra storia, ma come frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi.
I neo barbari ci impongono di svendere il nostro patrimonio per rimediare a oltre 40 anni di privilegi del ceto politico regionale e nazionale, agli affarismi clientelari dei gruppi di potere, a costose “grandi opere”, alle facilitazioni alle grandi imprese, prima di tutto la Fiat, al lassismo fiscale correo dei vari governi, alle spese di guerra delle “missioni umanitarie” in violazione della nostra Costituzione.
È ora di risvegliare il Droctulft in letargo, è ora di guardare verso i mosaici d’oro come verso il sole carico di rabbia e d’amore e difendere la nostra città, la nostra dignità e la nostra civiltà dagli invasori che vengono da dentro.

sabato 15 settembre 2012

Roberto Roversi, il lungo sogno

di Alberto Capece

Strano che una biblioteca antiquaria possa avere l'odore del futuro. Eppure per me fu così, ai tempi del liceo: chi conosce via Castiglione a Bologna, sa che basta poco per sprofondare nel Trecento, in quel gotico ferrigno e denso di materia a cui si oppone vanamente la mole della chiesa di Santa Lucia che romaneggia gesuitica e tarda. Ma entrare nella libreria di Roberto Roversi, nel pozzo di penombra di quei portici fu come un annuncio dell'uscita dell'adolescenza, una prima esplorazione del mondo che andasse al di là dei paesaggi, dei libri di casa, della scuola o dei corpi più che altro sognati, più che altro seguiti di ragazze.

Roversi era già famoso, anzi assai più famoso di oggi che è morto: sapevo da liceale intimidito di "Officina" e di "Rendiconti", favoleggiavo che tra quegli scaffali il giorno prima fossero passati Volponi o Pasolini o Sciascia o Moravia, insomma quel presente numinoso e inafferrabile nel quale vagamente e ingenuamente mi immaginavo mentre fuori maturava un'ignota rivoluzione. Dunque ad impressionarmi non era tanto la quantità di libri ammassati come per un imminente e ontologico trasloco perché la cultura è sempre un essere sulla soglia di qualcosa, ma l'essere accolto dentro quel mondo, dal poeta e agitatore di idee in veste di libraio.

Così ricorderò sempre un pomeriggio, già dentro la vita universitaria, che ci andai col mio amico Pier Damiano dopo aver distribuito volontariamente un po' di ciclostili che paradossalmente erano diventati il mezzo espressivo principale di Roversi. Eravamo andati con l'intenzione di proporgli la pubblicazione dell'ennesima rivista tra letterario, avanguardista e rivoluzionario che fermentavano nel ventre magmatico di quegli anni. Ma non avemmo il coraggio di affrontare l'argomento e così pian piano ci immaginammo di avere quaranta o cinquant'anni in più e di essere tornati lì dopo una vita di successi e di libri a covare la strana nostalgia di ciò che stavamo vivendo.

"Ecco è qui da dove siamo partiti" diceva il mio amico a Roma da decenni e tre best seller all'attivo  e io assentivo avendo prescelto per me la parte di uno di quei poeti filosofi di cui in Italia abbiamo solo l'esempio di Leopardi, ma che in Germania abbondano. Non il pazzo Hoelderlin chiuso dentro la torre, quanto piuttosto uno che potrebbe avere scritto "Questo è il Teatro degli Artigianelli/ Quale lo vide il poeta nel mille... " E certo il cannone rombava ancora nelle strade, nelle menti, nei giornali, prima della sconfitta.
Ma rimanemmo un'ora buona a ricordare il nostro presente, senza avere l'idea di come fosse terribilmente letteraria quell'immaginazione. E uscimmo così soddisfatti da quella commediola che ancora adesso non ci fa impressione essere riusciti a scrivere a orate e branzini avvolti nella carta da giornale per le sciure con dovizia di mezzi. E anche fossero sarde tanto meglio: è l'atmosfera di quella libreria, quella bolla di innocente stupidità che ci ha regalato a rimanere ancora intatta, dopo che le certezze di quell'era si sono disgregate.

Qualche mese più tardi Roversi ci diede effettivamente una mano a fare uscire la famosa rivista mettendoci in contatto con uno stampatore di parchissime pretese, anzi pressoché gratuito. Però di quella piccola avventura dentro lo scrivere rimane solo ciò che è legato a quei portici e a quel lungo inconsapevole sognare. Ma anche mi è rimasta la certezza che solo in un luogo aperto si può descrivere il mondo senza infingimenti e -ricordando quel verso di Roversi, Nelle case dei poeti questa è l'ora del té - che per la verità, quando ci si affolla, non esiste riposo. Il té è già la sconfitta.

martedì 11 settembre 2012

Allende e oltre


di Massimo Pizzoglio

E' un periodo che ricordo bene, quegli anni settanta a Torino.
Ero adolescente e scoprivo la politica, l'impegno sociale, le contraddizioni di una città che Valletta aveva deciso molti anni prima dovesse essere solo operaia, laboriosa, grigia e la sera a letto presto che qui si lavora. E che invece era viva, sotto quel grigio, contro la scarsità dei luoghi di ritrovo, gli orari dei locali, la nebbia e il freddo invernali, il deserto ad agosto.
Ci si trovava spesso a casa nostra, che era grande e con un enorme frigorifero, grazie a mia sorella, di tre anni più vecchia, la cui trascinante esuberanza era una calamita per molti interessantissimi personaggi.

Tra loro arrivarono, alla spicciolata, alcuni studenti sudamericani, di vari paesi.
I primi erano tutti nipoti di piemontesi emigrati quando la terra promessa non era questa, ma quella oltreoceano, e stavano un poco in disparte, noi pensavamo per i problemi di lingua, che un po' conoscevano in famiglia e un po' è simile alla nostra, ma non così agevole.
Pian piano il numero aumentò e le origini erano adesso più varie, ma la riservatezza, che avrebbe dovuto allentarsi con la conoscenza e l'allargamento dei "conterranei" non diminuì, tanto che pensammo un po' tutti che fosse endemica.
Dei colpi di stato, delle dittature, di politica, di guerre nel mondo si parlava tantissimo, ma solo alcuni di loro si avventuravano in commenti aperti.
Poi, ma erano passati mesi, da un paio di amici, quali erano diventati nel frattempo, scoprimmo quale era il motivo: le spie.

Già, perchè uno degli aspetti più trascurati della vita degli esuli politici e insieme uno dei più odiosi delle dittature è proprio la delazione, il sospetto, l'insicurezza portata a metodo di vita.
La punizione a distanza di chi è riuscito a sfuggire e non ha ancora il peso politico degli oppositori conclamati è la paura, per la propria vita in primis e per quella dei propri cari che sono rimasti in patria.
Il ricatto, esplicito o serpeggiante, del silenzio e dell'inazione, del rimanere ingessati con il cuore che scoppia di rabbia e la mente che chiude le porte alla confidenza con chiunque: di nessuno puoi essere sicuro se sia amico o traditore.

In quegli anni, in alcuni luoghi (e voglio pensare ci fosse anche la nostra casa) ci si esponeva un po' di più, ma certe confidenze politiche e certi volti decontratti e sorridenti le ho sentite e li ho visti solo molti anni dopo.
Le canzoni erano un bel grimaldello, uno sfogo importante, un'occasione per dire cose che non segnassero uno sforamento aperto, ma che facessero sgorgare un po' di rabbia repressa.: sapevamo a memoria tutti i dischi degli Inti Illimani, della famiglia Parra e di Victor Jara erano un po' più difficili da trovare, ma ce li scambiavamo, facevamo le "cassette" pirata.

Di quegli amici, quasi tutti sono tornati nei loro paesi e con quelli rimasti ci si è persi di vista, hanno figli e, ormai, nipoti; nelle foto di famiglia hanno dei vuoti creati in quegli anni e, forse, di quell'atmosfera che io percepivo allora serbano un ricordo sopito, ma questi sono i miei ricordi di oggi, nell'undici settembre che non manco di celebrare con rabbia e commozione da quasi quarant'anni.
Di quel colpo di stato, ma anche dei successivi che dilagarono in tutta la "dispensa degli Stati Uniti" dell'America australe e che, come dimostra il Paraguay, forse non sono ancora finiti.

mercoledì 5 settembre 2012

Il "copiaincolla" della razza padrona

di Claudia Pepe

La laurea di Renzo Bossi? Conseguita in un anno con 29 esami e in lingua albanese.Sembra una barzelletta. Invece la famosa Università Kristel ha sformato una delle menti più poliedriche del panorama politico italiano, addirittura in Gestione aziendale nella facoltà di Economia .Una laurea presa in tempo di record, poco più di un anno per un corso che ne richiederebbe tre. Ma le lauree brillanti della razza padrona italiana non finiscono qui. Non dimentichiamoci di Pierangielo Moscagiuro, conosciuto come Pier Mosca, il bodyguard della vicepresidente del Senato Rosy Mauro che, presso la stesso ateneo del Trota, può vantare una laurea in Sociologia alla facoltà di Scienze Politiche.

Però questi allievi in odore di censo non arrivano solo dall'Albania. E di pochi giorni fa la notizia riportata dal Corriere che, all''università di Harvard, 125 studenti "modello"sono stati beccati a fare copia-incolla e consegnare un test praticamente uguale.Tutti gli studenti sorpresi a copiare (ragazzi ai quali è garantito l'anonimato) dovranno comparire davanti all 'Harvard Administrative Board, una sorta di tribunale presediuto dal preside della scuola "undergraduate", Jay Harris: un vero "segugio"che fin qui non si era accorto di nulla. E'stato un giovane assistente che, nel correggere i compiti, ha dato l'allarme, rendendo inevitabile l'indagine.Ora, Harvard è sempre stata riconosciuta una delle migliori Università al mondo, un po' come le nostrane Bocconi e la Normale di Pisa, da dove ultimamente si attigono le menti più intelligenti, geniali e tecniche, adatte a governare il mondo.

Nasce spontanea una domanda. Ma siamo sicuri che conti solo l'intelligenza per entrare a far parte di quella casta destinata a mutare la vita delle persone? O anche nei più prestigiosi Atenei vale la stessa tangente economica usata dalla Family per dichiarare al mondo la loro legittimità a legiferare in modo ad personam e quindi "copiaincollando" il loro non sapere sulla vita dei cittadini? Non si potrebbero altrimenti giustificare certe nomine di sottosegretari che definiscono "sfigati" chi non si laurea a 26 anni e si ritrovano una prestigiosa carriera sulle spalle a loro insaputa. Succede così, che anche gli indegni (non per forza didatticamente, ma di certo eticamente parlando) passino al di là del guado , faticando meno degli altri, traendone un 'aggiunta di retrogusto che da italiani-attori o spettatori- ben conosciamo.

Il passaggio successivo è irrorare ciò a cui si accede col medesimo modus operandi : la furbata in tasca, cugina complessata dell'asso nella manica , il quale per lo meno porta una connotazione d'abilità in quanto frutto del proprio intelletto. Non sono sicura che sia l'Università a definire la bravura e l'intelligenza di una persona. Piuttosto prefersco pensare che siano i ragazzi a definire il prestigio delle Università..Si può uscire da Harvard, dalla Bocconi o dalla Normale e diventare un emerito sconosciuto che svolgerà la sua vita nel modo più grigio del mondo non riflettendo mai l' immagine virtuosa della sua vita scolastica ed essere felice di sé. Come si può uscire da qualsiasi Università del mondo e diventare un leader che trascina con la sua genialità e intelligenza la metamorfosi di una società.Stiamo assistendo , soprattutto in Italia, alla presa di coscienza di quei"rampolli" della migliore società, consapevoli dell'essere "speciali" in quanto illuminati dal Santo Calice del Gral , con il pensiero dominante e la verità in tasca.

Nozioni tecniche imparate a memoria o fotocopiate che non danno frutti maturi in una società già ammalata da precedenti virus attaccati come la gramigna in un Paese nato con radici sane. La tecnica serve. Serve a capire i meccanismi ,adottarne l'idea e poi riprodurli. Ma, senza la capacità di ascoltare e recepire la reazione della gente non serve a nulla. Anzi si ottiene il risultato contrario .La consapevolezza dell'essere speciale lo si deve riscontrare giorno per giorno , non si può" copiaincollare" nulla nella vita, perchè ogni giorno è diverso dall'altro; come le persone, le situazioni , le condizioni. E questo non è privilegio di esseri speciali ma di persone che accolgono dal basso e dai più umili le parole di emergenza e di bisogno,per costruire una società migliore. Il censo e l'aureola degli illuminati , è finita da molto tempo ma ,sembra che i nostri politici, non vogliano accettarlo. Noi della nostra vita non possiamo fare un copia-incolla . Ne abbiamo una e la dobbiamo vivere in una società cooperativa e rispondente alle nostre esigenze.

lunedì 3 settembre 2012

La luce imperialista

di Alberto Capece

Da ieri le lampadine a incandescenza sono fuorilegge: dovremo necessariamente affidarci alle fluorescenti, con quella luce da ufficio all'ora dell'uscita. Pazienza, cosa non si fa per combattere la Co2 o per aumentare la produzione di mercurio che appare essere letale nei termometri messi al bando, ma benefico nelle nuove lampadine che ne contengono ognuna 5 milligrammi. Bizzarrie, diciamo così per carità di continente, dell'Europa. Ma insomma vecchi filamenti addio e insieme luci calde, penombre di biblioteche, lampade discrete sul comodino accanto al letto, i colori del buio al quale siamo abituati.

E' passato poco più di un secolo da quando le lampadine hanno definitivamente soppiantato gas illuminante, candele, lanterne anche nelle piccole città, un periodo di 120 anni che non a caso si chiama secolo americano.Vi domanderete cosa c'entri, ma il fatto è che anche la lampadina è entrata nella sfera dell'immaginario che fa parte dell'imperialismo culturale d'oltre atlantico. Tutti noi infatti sappiamo che la lampadina è stata inventata da Edison nel mefistofelico laboratorio di Menlo Park. E invece è stata inventata e anche prodotta, sia pure in piccole quantità, da Heinrich Goebel nel 1854, quando Edison aveva 7 anni. Certo era un'invenzione precoce, visto che l'energia elettrica mancava quasi dovunque. Ma ciò non toglie che, come accade a Meucci per il telefono, ci vollero anni  e lunghe battaglie sia sul piano legale che su quello del riconoscimento scientifico, prima che fosse ristabilita la verità.

Tuttavia continuiamo a sapere che la lampadina è stata inventata da Edison, ma scommetto che la stessa cosa accadrebbe se domandassimo dove è nata la televisione o l'automobile o il computer o internet. Basta fare una ricerca non superficiale per sapere che nella seconda metà degli anni 30 la televisione era sconosciuta in America, ma in gran Bretagna esistevano 40 mila abbonati a due stazioni televisive ognuna delle quali trasmetteva con una tecnologia differente, in Germania c'erano 50 mila abbonati e di fatto la prima trasmissione televisiva non sperimentale fu quella dell'apertura dei giochi olimpici di Berlino nel 1936.  Persino in Italia alla vigilia della guerra c'erano alcune migliaia di televisori, sia pure destinati alle sperimentazioni mediatiche di regime.
Anche l'automobile è tutta europea, come potremmo sospettare dal fatto che il motore a quattro tempi viene moltiplicato per due e designato ciclo Otto dal nome dell'ingegnere che lo ha brevettato, Nikolaus August Otto per l'appunto, sia pure sulla base di realizzazioni precedenti dovute a Barsanti, Matteucci e Beau de Rochas. In America al contrario è stato inventato il fordismo.
Per il computer non ne parliamo: dalla macchina di Babbage e dai primi programmi scritti per quello strano coso da Ada Lovelace, la figlia del poeta Byron, alle macchine di Herman Hollerith, alle realizzazioni svedesi per il calcolo astronomico automatico, al pazzo Turing, ci sarebbe da scrivere un romanzo: fatto sta che per unanime riconoscimento il primo computer, funzionante con codice binario, secondo lo schema di von Neumann e programmabile è lo Z1 di Konrad Zuse, costruito nel 1939 nell'appartamento berlinese dove il giovane ingegnere conviveva con i genitori. E persino internet, così come lo conosciamo, è nato in realtà al Cern di Ginevra.

Vabbè mi sono inutilmente dilungato: la cosa significativa è che la massa di informazioni o meglio di comunicazioni che ci sono trasmesse, portano ad avere un'impressione molto diversa e cioè che tutto sia nato e nasca oltre altlantico, suggerendoci l'impressione correlata che ciò sia dovuto non al fatto che gli Usa sono un Paese continente con enormi risorse e con una potenza in grado di risucchiarle da tutto il mondo, ma a un insieme di valori che gli ultimi trent'anni liberisti hanno portato al parossismo. Così siamo portati ad imitare in ogni cosa - compresa l'istruzione - un sistema che in realtà vive grazie di straordinarie rendite di posizione e a scambiare realizzazioni commerciali o immensa disponibilità di fondi o sfruttamento intensivo di risorse altrui, con inventiva e sapere.

Ma a volte basta accendere una lampadina per accorgersene.