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sabato 15 settembre 2012

Roberto Roversi, il lungo sogno

di Alberto Capece

Strano che una biblioteca antiquaria possa avere l'odore del futuro. Eppure per me fu così, ai tempi del liceo: chi conosce via Castiglione a Bologna, sa che basta poco per sprofondare nel Trecento, in quel gotico ferrigno e denso di materia a cui si oppone vanamente la mole della chiesa di Santa Lucia che romaneggia gesuitica e tarda. Ma entrare nella libreria di Roberto Roversi, nel pozzo di penombra di quei portici fu come un annuncio dell'uscita dell'adolescenza, una prima esplorazione del mondo che andasse al di là dei paesaggi, dei libri di casa, della scuola o dei corpi più che altro sognati, più che altro seguiti di ragazze.

Roversi era già famoso, anzi assai più famoso di oggi che è morto: sapevo da liceale intimidito di "Officina" e di "Rendiconti", favoleggiavo che tra quegli scaffali il giorno prima fossero passati Volponi o Pasolini o Sciascia o Moravia, insomma quel presente numinoso e inafferrabile nel quale vagamente e ingenuamente mi immaginavo mentre fuori maturava un'ignota rivoluzione. Dunque ad impressionarmi non era tanto la quantità di libri ammassati come per un imminente e ontologico trasloco perché la cultura è sempre un essere sulla soglia di qualcosa, ma l'essere accolto dentro quel mondo, dal poeta e agitatore di idee in veste di libraio.

Così ricorderò sempre un pomeriggio, già dentro la vita universitaria, che ci andai col mio amico Pier Damiano dopo aver distribuito volontariamente un po' di ciclostili che paradossalmente erano diventati il mezzo espressivo principale di Roversi. Eravamo andati con l'intenzione di proporgli la pubblicazione dell'ennesima rivista tra letterario, avanguardista e rivoluzionario che fermentavano nel ventre magmatico di quegli anni. Ma non avemmo il coraggio di affrontare l'argomento e così pian piano ci immaginammo di avere quaranta o cinquant'anni in più e di essere tornati lì dopo una vita di successi e di libri a covare la strana nostalgia di ciò che stavamo vivendo.

"Ecco è qui da dove siamo partiti" diceva il mio amico a Roma da decenni e tre best seller all'attivo  e io assentivo avendo prescelto per me la parte di uno di quei poeti filosofi di cui in Italia abbiamo solo l'esempio di Leopardi, ma che in Germania abbondano. Non il pazzo Hoelderlin chiuso dentro la torre, quanto piuttosto uno che potrebbe avere scritto "Questo è il Teatro degli Artigianelli/ Quale lo vide il poeta nel mille... " E certo il cannone rombava ancora nelle strade, nelle menti, nei giornali, prima della sconfitta.
Ma rimanemmo un'ora buona a ricordare il nostro presente, senza avere l'idea di come fosse terribilmente letteraria quell'immaginazione. E uscimmo così soddisfatti da quella commediola che ancora adesso non ci fa impressione essere riusciti a scrivere a orate e branzini avvolti nella carta da giornale per le sciure con dovizia di mezzi. E anche fossero sarde tanto meglio: è l'atmosfera di quella libreria, quella bolla di innocente stupidità che ci ha regalato a rimanere ancora intatta, dopo che le certezze di quell'era si sono disgregate.

Qualche mese più tardi Roversi ci diede effettivamente una mano a fare uscire la famosa rivista mettendoci in contatto con uno stampatore di parchissime pretese, anzi pressoché gratuito. Però di quella piccola avventura dentro lo scrivere rimane solo ciò che è legato a quei portici e a quel lungo inconsapevole sognare. Ma anche mi è rimasta la certezza che solo in un luogo aperto si può descrivere il mondo senza infingimenti e -ricordando quel verso di Roversi, Nelle case dei poeti questa è l'ora del té - che per la verità, quando ci si affolla, non esiste riposo. Il té è già la sconfitta.

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