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sabato 5 novembre 2011

Alluvioni di affari


di Margherita Nikolaevna

Una bizzarra turba di ansimanti/ alberi, siepi alla deriva/ e case in fuga nei fiumi/ è ciò che videro i vivi: con queste parole Montale traduceva la Tempesta della Dickinson, dando ai versi dell’inquieta poetessa vestita di bianco l’impeto dell’evento eccezionale. Il fatto è che eccezionale la tempesta non è più: non solo come turbolento fatto atmosferico, bomba d’acqua in lotta tra il calore anomalo della terra e il primo freddo autunnale, ma soprattutto come disastro ambientale.

Solo negli ultimi due anni il bilancio delle vittime delle alluvioni in Italia è stato pari a un bollettino di guerra: quasi 70 morti distribuiti in modo diseguale tra Sicilia, Campania, Lazio, Toscana, Marche, Romagna, Veneto e Liguria (proprio la Liguria di Montale). Sono morti senza pace, spesso senza corpo. Con impressionante frequenza si ripete lo stesso copione di soccorsi, gare di solidarietà, protezioni civili, primi cittadini, presidenti operai, ministri, professionisti della sofferenza (Nicola Valletta li avrebbe definiti fascinatori), esequie solenni con applausi alle salme, promesse finali – puntualmente astratte – di interventi radicali e fondi straordinari.

Colpisce, in questa catena seriale di sciagure naturalistico-mediatiche, il dibattito sulla prevedibilità dell’evento: come se l’imprevedibilità di un’alluvione potesse rendere tollerabile la mancanza di una politica di conservazione del territorio, di una lotta sistematica all’abusivismo endemico, di un apparato di soccorsi che non collassi alla prima emergenza per carenza di mezzi. Curiosamente, l’incapacità italica di prevedere i disastri si accompagna al talento di trasformare la ricostruzione in affari lucrosi, come è avvenuto dopo il terremoto dell’Aquila con la creazione inutile di quelle stesse new towns che Bertolaso tentò di imporre – invero con scarso successo – agli alluvionati di Messina.

Altro fenomeno perverso (non atmosferico ma antropologico) è quello delle alluvioni verbali collegate a quelle reali. Libero ha dato la colpa della furiosa tempesta di Roma a Rutelli e Veltroni, tutti “feste e notti bianche”. Matteoli, di fronte al disastro ligure, è riuscito a dichiarare come l’ispettore Clouseau “è molto peggio di quanto immaginavo”. D’altronde solo pochi mesi fa il vicepresidente del CNR Roberto De Mattei, estendendo la nostra accezione personale di disgrazia, dichiarava a Radio Maria – a proposito dei terremoti – che le grandi catastrofi sono una voce paterna della volontà di Dio, che ci richiama al fine ultimo della nostra vita. Laicamente parlando non c’è scampo: se Dio è ostile, entra in campo la Protezione civile…
Due anni fa la Sicilia sembrava immersa nelle atmosfere di Carver: il presidente della Regione si faceva fotografare sorridente sulla tomba di fango con un elegante giubbotto di camoscio non particolarmente adatto alla circostanza. Adesso lo stesso presidente, indagato per mafia come il suo predecessore, tace sulla messa in sicurezza delle zone alluvionate ma intende ricostruire il tempio di Giove a Selinunte (con sacerdoti assunti direttamente dalla Regione?). Forse le nuvole non potranno essere fermate, ma gli uomini sì.

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