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martedì 8 gennaio 2013

Fallisce la Richard Ginori: piatti rotti e i cocci della memoria


di Anna Lombroso

Anche se veniva tramandato di madre in figlia non c’era lista di nozze che non annoverasse quel bel servizio per gli sposi, completo, con le raviere, le tazze per il consommé, le mezzelune per l’insalata, le sontuose e capaci terrine e certe scodelline di incerto impiego, che però non dovevano mancare in una casa come si deve. Oculate, le suocere raccomandavano di “stare sul classico”, intanto dotarsi dell’Antico Ginori con tutta quella teoria di plissé che correva sull’orlo, così che se uno si rompe lo si ricompra, che Ginori non finisce mai.

Ma le promesse spose, in quei grandi felpati negozi, dove servizievoli direttori erano pronti a consigliare per il meglio con voci soavi e ragionevoli, quando percorrevano quei soffici tappeti, quando si fermavano a ammirare quei tavoli da esposizione con la mise en place, come facevano a resistere a quelle cineserie o a quelle turcherie, a quei “candori” così sottili da virare sull’azzurro trasparente, come facevano a non farsi incantare dall’opulenza massiccia di certi fregi imperiali? E il direttore pronto a dire, ma è giusto, perché non concedersi un capriccio, che poi è un investimento e da una tavola ben allestita con eleganza e ricchezza vengono altra ricchezza e prestigio.

Dietro certi muri alti e severi, quel prestigio si conservava e trasmetteva, dentro grandi armadi chiusi a chiave e si accumulava ad altre ricchezze. In case più vive, in famiglie più numerose e spericolate, dopo qualche inizio all’insegna della tutela, quando il servizio buono si metteva in tavola solo alle feste comandate, via via invece le pile alte si impoverivano, si scivolava in una dègringolade inarrestabile verso lo scompagnato e alla fine nella vetrinetta restava la salsiera, qualche tazzina da caffè, in memoria di passati splendori.

Splendori passati e finiti, come quella vecchia fabbrica, la Manifattura di Doccia, fondata nel 1735 da un bizzarro marchese Ginori appassionato di caccia e vini, che si dice avesse dato origine alla piccola industria perché voleva dei piatti solo suoi, esclusivi, disegnati da lui per i suoi banchetti, in quella campagna allora pingue e armoniosa nei pressi di Sesto Fiorentino.
Un’azienda artigianale che poi si fonde col gruppo industriale dell’intraprendente famiglia Richard nel 1896 e diventa un piccolo impero del gusto e della tradizione italiana, alla cui leggenda contribuiscono disegnatori e artisti, creativi e artigiani sofisticati e visionari. Così, come succede per realtà così esemplari, anche questa fabbrica così “fragile” e forte suscita appetiti e passa per mani non sempre pure, Sindona, Liquigas, Pozzi, Bormioli.
E ieri, infine, la decisione dei giudici fiorentini: la Richard Ginori è stata dichiarata fallita, tra le lacrime e le imprecazioni dei 314 operai cassintegrati che avevano sperato nel successo di una cordata, quella composta da Lenox e Apulum, pronta a rilevare l'azienda e farla ripartire. I dipendenti sospettano: “la decisione del tribunale è un fulmine che induce a pensare che dietro questo fallimento ci siano dei giochi particolari", se è stato respinto il concordato che si fondava sull'affitto e la successiva vendita a Lenox-Apulum e sulla cessione dei Musei della Richard Ginori allo Stato che avrebbe permesso alla società di ricavare 23 milioni, con i quali compensare un debito tributario di circa 16.
Non si sa quali siano questi giochi, non si sa perché, unico, il creditore privilegiato non abbia ritirato l’istanza di fallimento, a suo stesso discapito, non si sa se la controproposta della piemontese Sambonet sia più vantaggiosa e abbia qualche chance, si capisce solo che è come se un patrimonio di famiglia, un gioiello di casa, una presenza familiare nel ritratto della nazione e nella sua autobiografia, un bene al quale hanno contribuito dinastie operaie qualificate e geni dell’arte applicata, si fosse spaccato come si rompe un piatto, con il rumore secco, sorprendente e crudele dell’irreparabilità.

Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse: al primo posto non possono che esservi i beni comuni materiali naturali: terra, acqua, aria, energia. Ma bisogna cominciare a comprendere anche quelli che “fanno” l’identità storica di un Paese e di un popolo: luoghi, paesaggi, monumenti, quelli che oggi vengono considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile, alienandoli e svendendoli per fare cassa, ma anche perché la mercificazione possa permeare e intridere tutte le relazioni tra individui, persone e natura, uomini e conoscenza. In modo che si sviluppi quel processo pensato per massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile dagli esseri umani, dalla natura, dal pianeta, dal sapere, dall’informazione.
Allora forse è il momento di cominciare a pensare in termini di “bene comune” che non è una declinazione al singolare ma un approccio più completo e ideale che riporta all’interesse di tutti, alla sovranità indivisa su un patrimonio che si è ricevuto e si trasmette nella sua integrità arricchita dall’esperienza di una generazione e che passa all’altra come un messaggio di civiltà e umanità.

E di tutto questo fanno parte le fabbriche, quelle di auto come quelle che da 200 anni producono oggetti entrati nelle storie familiari di tutti, fanno parte il lavoro, la fatica di chi ha creato e costruito, girato torni e alimentato i forni e il loro caldo e il loro freddo, con le loro capacità e i loro talenti,quel loro tornare a casa la sera e mangiare una minestra in un piatto di ceramica un po’ sbeccato e bere dal fiasco.
Ieri sera aprendo il grande armadio antico, lucido per via di quella cera profumata ma anche perché la sera spegnendo le luci prima di andare a letto ci passo le dita e lo accarezzo perché è un pezzo di casa, di care memorie, ecco, ieri aprendo le grandi ante me li sono guardati quei piatti ben allineati come un esercito di ospitalità e accoglienza, di feste e di stare intorno a un tavolo parlando piano in giorni tristi, quelli candidi, leggeri e quasi trasparenti come conchiglie o quelli appena offuscati dalla patina degli anni, con quel bordo trionfale blu e oro, le grandi zuppiere nelle quali hanno nuotato succulenti tortellini tra le gocce goduriose del brodo, i lunghi piatti ovali dove si impigrivano pesci grigi e rosei ammantati di maionese, o l’alzatina dei marrons glacè.

Aprendo l’armadio, guardando i miei piatti sui quali vorrò per sempre mangiare con l’uomo che amo, con le mie bambine cui andranno un giorno, magari meno numerosi, ma tanto Ginori ci sarà sempre, insieme ai miei amici, ho pensato alla mia fortuna di aver conservato oggetti che parlano con le voci del passato, le risate, i no e i si, i non ho voglia e ho fame, quelle conversazioni come una musica felice o malinconica del passato, con i suoni di quella fabbrica e del lavoro di tanti, le loro lotte, la loro fatica per darci quella domestica antica bellezza. No, non si rompe la nostra storia come un piatto, perché la felicità che ci spetta non è solo pane, ma bellezza della memoria e del futuro.

3 commenti:

  1. Che gioia leggerti Anna Lombroso, che gioia non rinunciare alla bellezza, all'impegno, alla saggezza, alla riflessione, alle memorie.
    Che consolazione sapere che per qualcuno il pensiero del bene comune è ancora una cifra, una bandiera, un motivo per lottare. Grazie

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  2. Un bel po' di anni fa avevo conosciuto alcuni operai della Ginori che mi avevano raccontato come facilmente in quella fabbrica ci si ammalava di silicosi. Anche questo andrebbe messo in conto

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  3. anche io come tante ho ereditato i famosi piatti GINORI ed anche io come tante li ho passati a mia figlia
    e adesso
    tutto si rompe,tutto cambia
    che tristezza
    nell'armadio non si potrà più sostituire quello che si è rotto la GINORI non c'è più

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