7555a9d03dfe41c98f85ac913f34049d

Cerca nel blog

venerdì 26 agosto 2011

Caffè scorretto


di Anna Lombroso

Sono sentimentalmente legata a una definizione dell’Italia tante volte ripresa, e smentita, in questo controverso cento cinquantenario. La nazione mite, intendendo un paese nel quale per indole e spontaneamente, malgrado abbia dato i natali a Machiavelli, si viveva più dolcemente o forse, più arrendevolmente essendo la mitezza un carattere che appartiene “alla componente della società che non esercita il potere, agli umiliati e offesi, ai sudditi che non saranno mai sovrani”. Vorrei che nessuno sostasse nella condizione di vittima, quindi della mitezza mi piace pensare che se non è un virtù politica possa essere una virtù sociale che preconizza un mondo migliore, meno violento e sopraffattore. Che il mite sia “l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé, colui che rende più abitabile questa aiuola”, con la gentilezza, la comprensione e il ragionare insieme, grazie alla fermezza composta e sorridente delle proprie convinzioni.
La mitezza, che qualcuno ha definito qualità femminile non so con quanto lungimiranza, è aiutata dalla dolcezza del clima, dall’armoniosa bellezza del paesaggio, da certi dialetti che suonano come vecchie canzoni cantate da bambini. E dal garbo gentile e comunitario dei luoghi della socialità, le piazze, le biblioteche, le scuole, i musei, archivi della memoria e dello stare insieme.
È accaduto qualcosa di davvero terribile se in pochi anni, che minacciano che questo sia davvero un secolo ancora più breve di quello trascorso, la barbarie ha disperso questo “senso comune”, se una perentoria violenza gridata ha coperto il colloquiare, se tramite leggi dello stato si chiudono scuole, si brutalizza il paesaggio, si oscura la bellezza, se i piccoli educati paesi sono diventati enclave della diffidenza e del rancore contro stranieri e diversi. Se vige una lingua imbastardita e villana dove l’abitudine alla “licenza” autorizza insieme agli errori, all’approssimazione, anche l’incomunicabilità. E se la memoria collettiva diventa un fastidioso fardello di cui liberarsi come una condanna a ragione e responsabilità.
Tra i tanti posti del vivere e ragionare insieme cancellati nella comune obliterazione della realtà, sostituita da una narrazione della politica, della sfera pubblica e di quella privata al servizio di un presente e di un futuro di solitari e ubbidienti consumatori di esistenza e spettacoli, ci sono anche i i luoghi della convivenza. Video e pc al posto del camino, centro commerciali al posto delle piazze. E disadorni bar tetri e freddi come in un quadro di Hopper al posto dei caffè e delle osterie. Dove gente consuma rapidamente anche le attese insieme a bibite insapori. A volte mi viene di pensare che l’anonimato, le torri di cristallo nelle quali si specchia la cruda modernità delle megalopoli ci farà tornare il desiderio di confidenza, di intimità, ci consegnerà alla bellezza dell’affidarsi e del fidarsi degli altri. Ma temo sia una piccola utopia. È probabile invece che lo squallore sia uno degli strumenti più o meno pensati per ridurci in una lugubre frustrazione, così incerta e triste da condannarci al sonno del pensiero, a una povertà morale e all’oblio del futuro.
Ora che tacciono le sirene del consenso, resta solo qualche raglio ridicolo, che l’astuta altalena emotiva della persuasione che tutto va bene si è inceppata, ci troviamo armati solo del nostro soprassalto rabbioso ma inadeguato. Potrebbe essere un momento liberatorio, nel quale a ciascuno viene l’impeto di fare qualcosa, ma è anche il momento dell’imperfezione e dell’impotenza. Qualcuno ha detto che all’emergenza non si addice la filosofia. Invece io credo che proprio in tempi così bui serva proprio ragionare su noi stessi e insieme agli altri. Come una volta si faceva nei caffè. Anche in quelli di paese dove ti portavano il gelato nella coppetta di metallo e accanto il bicchiere d’acqua di fonte coi cucchiaini lasciati a bagno, e si stava a guardar passare la vita ma ci si stava dentro. Per non parlare di quelli dove la vita la si sezionava come in una lezione di anatomia, .mica solo il Flora con Sartre e de Beauvoir, mica solo il de Lilas con Zola o Baudelaire, con Apollinaire o Verlaine, o con Fitzegerald o Breton o Gide. Mica solo come l’Arco dove quando entrava Kafka per incontrare Milena calava il silenzio. O il Café des Westens, illuminato dalla fiaccola di Karl Kraus e dalla luce folgorante di Walter Benjamin.
Non parlo solo dei “salotti” esclusivi della cultura mondana, Pedrocchi o Giubbe Rosse Roma, l’Accademia del Caffè Roma, l’Europa di Napoli, il Corazza, il Tommaseo o l’Italia di Trieste, il Martini. Dico soprattutto di quei caffè nei quali si fece l’Italia. Il Progresso o il Diley, il Nazionale o il Colosso a Torino. Peppina e Cecchina , il Santa Margherita o il Luganeghin a Milano. E il Cacciatori o la Fenice a Bologna. Il Greco a Roma e il Florian al centro della battaglia con i ragazzi di Manin al riparo dietro le poltroncine di velluto rosso. E poi le osterie, dopo, dove si riunivano rapidi e spericolati i partigiani delle città e più tardi, dove si trovava riparo per dirla con Roberto Leydi dall’angoscia delle fabbrica per ritrovarsi tra “uomini”.
Il simplicissimus ha fatto bene a chiamare questo blog “caffè”. Immagino voglia farne un caffè scorretto. E lo sarà se come quei locali di una volta riuscirà, contro le tendenze della nostra contemporaneità, a essere un posto dove si discute, si dialoga, si colloquia, ci si adira e ci si consola poi intorno a quella radiosa utopia che sa immaginare un mondo dove è bello ragionare tra amici per costruirsi un futuro di donne e uomini che aspirano alla felicità.

1 commento:

  1. cara anna rubra
    la prof che fu in me dice dieci, con menzione di merito, secondo le asfittiche griglie che vogliono saggiare ed amalgamare conoscenze, competenze e capacità (che, in confidenza, cosa siano, nessuno l'ha mai capito... nemmeno i dotti, medici, e sapienti della docimologia tassonometrica che a loro "insaputa" le hanno inventate per farcele "somministrare"ai ragazzi!
    Che il vostro caffé si apra alla speranza di un futuro difficile ma consapevole e ricco di cultura da donare agli avventori e non solo: senza dimenticare il deontologico imperativo di vigilare e denunciare gli eccessi "ibridi" dello
    strapotere squallido che, ancora per poco, ci sovra-sta. Ciao lunare amica della notte!
    p.s.è stato un piccolo esercizio anti alzheimer...maria grazia

    RispondiElimina