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domenica 29 aprile 2012

Le grandi baraccopoli del futuro


di Anna Lombroso

Sempre più poveri, al punto che a migliaia diventano “nomadi” urbani, che ci saranno sempre più nativi baraccati, che aumenteranno sempre più i residente “mobili” in roulotte e camper e i meno fortunati in vecchia auto. Mentre La Fornero propinava i suoi consigli per gli acquisti raccomandando le lauree (che in fondo anche la Lega ci aveva pensato) piuttosto che la casa, l’Istat comunicava che in dieci anni in Italia c’è stato infatti «un aumento vertiginoso» del numero delle famiglie che dichiarano di abitare in baracche, roulotte, tende o abitazioni provvisorie, che come spesso accade rischiano di diventare perenni. Nel 2011 sono 71.101, a fronte delle 23.336 del 2001 e a ottobre scorso, data di riferimento del censimento, le baracche risultavano triplicate.
Quello contemporaneo è sempre più un animale urbano. E nelle smisurate e disumane metropoli moltitudini brulicanti sopravvivono in condizioni d’assoluta povertà.

Tanto che l’urbanistica assume connotati di controllo sociale e finalità di ordine pubblico. Il conferimento concentramento di queste sterminate masse entro spazi sempre più confinati e ristretti, al fine di controllarle e sfruttarle meglio, ha fatto proliferare le baraccopoli in tutti i continenti, generando quello che è stato definito il “pianeta degli slum”.
Se ne erano accorte senza grandi risultati perfino le sonnacchiose Nazioni Unite che nel rapporto The Challenge of Slums. Global Report on Human Settlements (2003), denunciarono che attualmente vivono negli slum quasi un miliardo di persone (una ogni sei, un abitante di città su tre) ritenendo che questo numero potesse raddoppiare entro il 2030. Il rapporto come oggi l’Istat parlava di una crescente “urbanization of poverty”, insomma dell’incremento di una cittadinanza nei cartoni. E anche la Banca Mondiale, alla fine degli anni Novanta, si era pronunciata “La povertà urbana diventerà il problema principale e politicamente più esplosivo del prossimo secolo” , peccato che la cura venisse identificata negli stessi germi patogeni: “ commercio internazionale e globalizzazione, nella maggior parte dei casi funzionano”. Oggi sappiamo che funzionano davvero se dall’inizio degli anni Settanta a oggi gli slum da Etiopia, Ciad, Afghanistan e Nepal, dove rappresentavano il 90% della condizione urbana, si sono estesi via via a Bombay, Città del Messico, Dhaka poi Lagos, il Cairo, Karachi, Kinshasa-Brazzaville, São Paulo, Shanghai e Delhi, “contagiando” le nostre metropoli teatri delle disuguaglianze più ferine.
Ci compiacevamo delle nostre città, delle loro torri di cristallo che si specchiano le une nelle altre, taglienti, aeree e compatte le une nelle altre e il cui splendore è fatto di puro e infrangibile presente e della promessa di un radioso domani.

Invece la metropolis planetaria del futuro, contrappone spietatamente le sue ardite strutture d’ acciaio giù giù alle bidonville, alle tombe dei Mamelucchi abitate da un milione di persone, ai cartoni catramati, in costruzioni abusive sui tetti o all’interno dei pozzi d’aerazione degli edifici, alle tane di plastica riciclata e di mattoni sbrecciati, alla paglia e al legname di recupero, in un tremendo e moderno squallore, fatto di inquinamento, rifiuti sfacelo. E poi ci saranno sempre più esodi biblici provocati dalle guerre, dalle calamità cosiddette “naturali”, dagli sconvolgimenti umani e ambientali con frotte disperate di nuovi immigrati e neo clandestini, germinati tra noi, vicini che non incrociamo più in ascensori, desaparecidos vittime della precarietà, della infame modernità liberista, della rapace, cruenta e originale iniquità. E si moltiplicano già le fortezze inespugnabili difensive e offensive, i quartieri con tanto di guardianie, vigilantes, dispositivi inespugnabili.
Segno che le società capitalistiche e democratiche non hanno saputo e voluto garantire la fitta rete delle interdipendenze che garantirebbe la dinamicità del loro sistema nervoso e che dovrebbe rendere possibile e praticabile il governo delle complessità. Si sono confermate e consolidate le tendenze disegualitarie investendo le società del capitalismo avanzato, provocando quelle "fratture sociale", di "secessione”, del pericolo, che pezzi interi di società si stacchino verso l'alto o verso il basso, in un processo di "semplificazione" che somiglia molto all'imbarbarimento.

Particolarmente sanguinari e ingorda e implacabile si manifesta la secessione della ricchezza, in forme estreme con modalità medievali. Thurow ha voluto indagare le manifestazioni di questo processo negli Stati Uniti. Circa 35 mila comunità di americani vivono ormai in vere e proprie cittadelle, circondati da mura e protette da polizie private (il numero di vigilantes privati eccede ormai quello dei poliziotti statali e federali) e da armi speciali di difesa. In California, alcune di queste fortezze è munita di congegni di artiglieria, una specie di balestra (si chiama bollard) che scocca proiettili lunghi quasi un metro contro veicoli non autorizzati.
La guerra dei ricchi contro i poveri non si svolge solo nei luoghi del lavoro e nelle cattedrali del mercato. E è una guerra vera, senza risparmio e in tutti i campi di battaglia, se il “Parameteres”, giornale dell’Army War College, scrive “sta nelle strade, nelle fogne, negli edifici multipiani, nella incontrollata espansione delle case che formano le città frammentate del mondo. ….. La nostra recente storia militare è punteggiata di nomi di città – Tuzla, Mogadiscio, Los Angeles [8], Beirut, Panama, Hue, Saigon, Santo Domingo – ma questi scontri sono stati solo un prologo, mentre il dramma vero e proprio deve ancora cominciare”. La lotta di classe del privilegio, del profitto e dell’accumulazione contro i popoli non è solo militare: la strategia comprende il restringimento della sovranità statale, l’impoverimento progressivo del welfare, l’eclisse diritti bruciati alla fiamma di una ideologia che ne ha fatto benefici e privilegi per pochi, la limitazione degli spazi e dei luoghi della democrazia, l’alimentazione di conflitti tra generazioni e segmenti di cittadinanza, la cancellazione di valori e garanzie del lavoro.

Il Terzo Mondo, un altrove rituale e virtuale è evaporato o meglio è ovunque grazie al mostruoso estendersi del mercato su ogni aspetto della vita umana, con l’arrembaggio e l’occupazione di ogni angolo del Pianeta specie nella forma imperialistica finanziaria. La sovrappopolazione relativa è sempre più attratta o rifiutata a seconda della concentrazione di capitale nelle varie aree del mondo. Masse enormi di uomini si spostano rompendo ogni legame con la loro terra, disegnata da frontiere politiche ormai diventate anacronistiche e il surplus di umanità senza riserve dilaga disperatamente, disordinatamente, bestialmente. Perché è bestiale un sistema di relazioni chiuso nel dualismo fatale di offesa e difesa. Per usare le parole di Amartya Sen, la libertà individuale è un impegno sociale. L'individuo non può essere un organismo confinato nell'egoismo privato o familiare, bensì un soggetto che persegue, sì, il suo interesse personale, ma non resta cieco riguardo alle conseguenze sociali delle sue azioni, comprendendole nel raggio del proprio interesse: il che implica che egli si apra verso l'esterno allo scambio delle informazioni, al rispetto delle preferenze, al confronto delle idee, al dialogo. L'individuo è un animale sociale: responsabile e tollerante. Non si aspetta dalla benevolenza del macellaio la sua cena; ma comprende il macellaio nell'ambito di quella caratteristica relazione umana che lo stesso Adam Smith chiamava "simpatia" (e che, secondo lui, non si contrappone all'interesse, ma lo comprende). Per tale via l'individuo è indotto a considerare la sua libertà come una fonte inesauribile di scelte impegnative, alla stregua delle quali misura la sua statura; e non solo come una garanzia di essere lasciato in pace per farsi i fatti suoi; o come un salvacondotto; o, al peggio, come una "licenza di uccidere". O peggio ancora con l’indifferenza infastidita con la quale si guarda al barbone avvolto nel cartone, come un cane randagio, reso pericoloso dalla fame, dall’abbandono, dalla solitudine. Ma la marginalità non è più un fenomeno periferico, è ormai al centro, è tra noi, è in noi. addossata ai muri di quelle torri di cristallo che c’è il pericolo rispecchino solo la nostra disfatta di uomini.

domenica 15 aprile 2012

Il campanile "seduto" sulla modernità


di Anna Lombroso

“Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia”, dice Marco Polo al Kublai Kan.

Si racconta che quella mattina del 14 luglio 1902 furono in molti alla Giudecca a gettare uno sguardo distratto sul profilo della città, al di la’ del Canale, e “sentire” ad un livello remoto della coscienza, che forse mancava qualcosa all’abituale linea sinuosa dipinta sull’orizzonte.
Si era afflosciato su se stesso il Campanile, ridotto a un polveroso cumulo di macerie in mezzo a una nuvola nebbiosa più che polverosa - inusuale per quella stagione - suscitata dall’evento rovinoso.
El se gaveva sentà, si era seduto senza un gran baccano, anzi dicevano i rari testimoni, con un crack come di qualcosa che si spezza. Da tutte le parti in molti accorsero piangendo come per un lutto, per una piccola apocalisse, per la perdita di una presenza familiare e domestica. Soprattutto i “foresti”. Allora, come poi anni dopo, tanti in ogni luogo del mondo nell’immenso monitor del villaggio globale hanno pianto vedendo in diretta le fiamme levarsi dalla Fenice.

Sono i fenomeni dell’irradiazione del mito di Venezia, che da un lato ne ha fatto una proprietà sentimentale, emotiva e culturale, di tutti; dall’altro, l’ha trasformata in un non-luogo, o forse in un luogo comune, un topos virtuale, tanto trattato, descritto, filmato, dipinto, cantato da farne una città immateriale, stranota anche se mai visitata. Sono i rischi di essere un mito, che fanno chiedere se Venezia sappia davvero vivere al di là dell’immaginario, emergendo con uno scatto d’orgoglio da quel baratro virtuale nel quale l’ha sprofondata tanta retorica, se ancora oggi poeti e artisti partecipano di quella elaborazione del lutto storica e collettiva contemplando le tracce di un antico splendore, paghi delle mirabili miserie, dell’appannarsi dell’oro, dello scrostarsi delle pareti affrescate, delle ferite inferte ai marmi policromi. E forse anche i moderni viaggiatori ricercano la conferma di quel rotolare ineluttabile verso la decadenza, la rovina e la morte. E sembrano aspettare ‘’in diretta’’ il verificarsi estremo e catartico della fine, l’affondamento, l’adagiarsi simbolico sui fondali.

Stereotipo cosmico, corre il rischio di lasciarsi imporre percorsi della percezione e della fruizione che ruotano intorno a un dualismo condiviso da letteratura e sociologia, immaginario e cronaca: il rimpianto del passato e l’attesa messianica della fine.
Fu come un annuncio profetico quel crollo nella calda mattina del 14 luglio 1902 quando il campanile si sedette su se stesso davanti agli occhi increduli di una città esterrefatta. “El paròn de casa” - come affettuosamente lo chiamavano i veneziani – se ne era andato piano, lasciandosi cadere, bonario e generoso come sempre – non si registrarono vittime in seguito al crollo -, stanco forse dei tanti secoli trascorsi a cadenzare, sempre a testa alta, i ritmi di una città tanto sfarzosa quanto fragile.
Eppure dei segnali c’erano stati, crepe, una fessura denunciata ma sottovalutata, un allarme angosciato dell’ingegner Pietro Saccardo, sdegnato dalla leggerezza delle autorità che fin dall’alba di quel giorno stava di guardia con un altro ingegnere, Rupolo, a prender misure e controlare, con al paura di “far la fine del sorzo”.

Saccardo non fece la fine del sorcio sotto le macerie, morì di sconforto e di crepacuore. Da anni metteva in guardia sui pericoli, inascoltato e trattato da incompetente inutilmente pessimista. E da disfattista lo trattarono i funzionari della Sovrintendenza sabauda che incuranti delle sue puntuali relazioni tecniche decisero di metter mano in proprio al rifacimento della copertura in piombo della Soggetta, rimuovendo la grondaia di marmo che affondava profondamente nella muratura, ignari o arrogantemente indifferenti del fatto che su quella "grondaia" poggiava l'intero peso del muro di rinforzo alzato dallo Zendrini un secolo e mezzo prima, ché pare sia una costante dei piemontesi agire senza sentire il parere di altri.
E proprio loro fecero di Saccardo il capro espiatorio oggetto di una campagna denigratoria: non era stato efficiente nelle attività di vigilanza, i suoi avvertimenti non erano stati efficaci. E comunque il crollo era una calamità “naturale”, un evento improvviso, un collasso per vetustà imprevedibile e ineluttabile.
Come era e dove era. Dicevano tutti. Cittadini di Venezia e del mondo. Ci misero dieci anno a tirarlo su dov’era e com’era. Raccogliendo tutte le macerie, frammento su frammento, ripulendole, spazzolandole, mettendole insieme come in un volonteroso puzzle. Perché era obbligatorio cancellare l’oltraggio e la vergogna dell’incuria. Ricordare con gli atti che nel passato come un motore che non conosce fatica, la città aveva governato maree e correnti, inalzato difese contro le alluvione dovute all’intreccio dei fiumi alpestri e alle ondate tumultuose e impetuose spinte dalle correnti litorali del fondi del golfo adriatico. E intanto bonificava, gestiva e impiegava a buon fine fenomeni di emersione, interramento e riempimento che colmavano le parti morte dell’ambiente marino, rinforzando isole e lidi, impedendo che la terraferma divorasse la laguna. Così nasceva la città, su pali conficcati nella melma giù fino in fondo, in un attivismo convulso ma razionale, senza soste nella convinzione tenace di operare in un organismo vivo da difendere contro forze cieche ed eventi poco prevedibili, ma necessariamente preventivabili.

Quest’anno sono cento anni che si è cancellata l’onta di aver lasciato crollare un simbolo, ricreandone il fragile mito, che sta come un faro inutile a assistere a altre vergogne, a offese denunciate: nulla sembra essere rimasto nella nostra contemporaneità di quella capacità di previsione, di quella potenza demiurgica, nella sonnolenta città di oggi ancora una volta minacciata da orde di barbari. Nulla resta del dinamismo impresso imprevedibilmente da quelle popolazioni descritte da Cassiodoro come in un affresco: un paesaggio immenso e povero, pianure liquide le chiama Mommsen, fatto di saline e barene, acquitrini e case costruite come nidi di uccelli acquatici. E nulla resta in questo mondo intorno, ricattato da una modernità irresponsabile, fatua, cinica e avida. Nel quale ci neghiamo la possibilità di partecipare a una felicità condivisa - gesto gioioso e fecondo che rappresenta, in qualche modo, la quota d’amore dedicata a ogni cosa, la gioia di creare e contribuire a un atto collettivo, quello di sentire e vivere la bellezza, di cantarla insieme come una musica che fa migliore l’esistenza nel nostro paesaggio umano.